Venezia 2013 / La jalousie

La jalousie, ovvero la (ri)nascita dell’amore. Philippe Garrel torna per l’ottava volta in concorso a Venezia con una delle sue opere più piccole, intime, raccolte, probabilmente la più vicina per dimensione produttiva ed estetica al capolavoro immortale del 1993 con Jean-Pierre Léaud e Lou Castel. Una rinascita, perché pur inscrivendosi nel solco della sua poetica il film appare superiore rispetto alle ultime prove, più ambiziose ma meno risolte. L’alfabeto del cinema di Garrel parla sempre la stessa lingua: bianco e nero, amor fou, rapporto padri/figli, tradimenti. Probabilmente l’aspetto più interessante di questa nuova fatica è il sogno, che qui acquista una funzione nuova rispetto al passato.

Il film si apre e si chiude su due separazioni incorniciate da personaggi filmati mentre sono a letto e colti un momento prima di addormentarsi o un attimo dopo essersi svegliati. Lungi dall’essere semplice momento di riposo, il dormire in Garrel diviene la più importante attività creativa nella vita di un uomo, occasione per elaborare sogni, visioni, immagini. In La jalousie la figlia prima e il padre poi sembrano a loro volta il prodotto dell’attività onirica dell’autore che mette in scena alcuni eventi che da bambino lo videro testimone: il padre Maurice (scomparso due anni fa e interprete storico del cinema francese nonché volto ricorrente nell’opera del figlio) abbandonò la propria famiglia per inseguire la relazione con un’altra donna. Nella finzione il padre diventa il figlio (Louis) e Philippe una bambina. Inversioni che sembrano il prodotto dell’inconscio poiché necessari a rielaborare eventi passati e soprattutto il trauma della morte del padre, motore della storia. Una vera e propria rifondazione della famiglia Garrel che si stringe attorno al nuovo patriarca così come fanno la figlia e la sorella Esther con Louis, dopo la fine della relazione amorosa e il conseguente tentativo di suicidio. Che al contrario di Un ete brulant non porta però alla morte del personaggio maschile: invece di colpire il cuore, la pallottola perfora il polmone sinistro garantendo a Louis la prosecuzione della specie.

In La jalousie ci sono, come sempre, gli affetti, i palpiti del cuore, l’amore assoluto, definitivo, ossessivo destinato ad infrangersi contro le difficoltà quotidiane, l’esaurirsi della passione, l’imprevedibilità della vita, l’irrazionalità dei sentimenti. La struttura circolare che il sogno e la perdita sembrano garantire preservano però Louis dal consueto destino tragico al quale più volte il padre/demiurgo lo ha condannato, trasferendo sul nucleo familiare quei sentimenti fino a poco prima indirizzati soltanto verso la donna amata. Il confronto con il penultimo Un ete brulant, e in particolare con la sequenza dell’ospedale, risulta esplicativo in tal senso. In entrambi i film Louis riceve la visita di una persona cara. Nel primo caso quella del nonno, che gli parla dall’aldilà, in qualche modo anticipando l’evento luttuoso che di lì a poco si compirà. Nel secondo caso, invece, quella della sorella minore Esther (interpretata dalla secondogenita di Philippe) che con dolcezza e premura manifesta la propria vicinanza portando, apparentemente, un effetto benefico. Una sorta di rinascita del cinema garrelliano che infrange lo scandalo dell’oblio riportando in vita il padre da poco scomparso. Padre evocato anche in una piccola sequenza che vede Louis sognare una donna che gli confessa di aver sempre amato il genitore, esplicitando così la dimensione onirica del film, racchiuso in un doppio sogno che pare produrre un andamento quasi ipnotico, senza strappi, lacerazioni, ad eccezione, ovviamente, del momento dell’addio, filmato con l’intensità di sempre. Per molti questo è il solito cinema ormai prevedibile, stanco, conservatore tanto nelle forme che nei contenuti, ma noi siamo di un altro avviso.

Quello che molti non vogliono capire è che per Garrel non ci sono altre storie filmabili se non quelle d’amore, perché in un certo senso esse contengono la matrice originaria di qualsiasi storia. La sua non è una posizione di retroguardia ma al contrario di resistenza contro l’omologazione del gusto e dell’estetica e di coerenza, rispetto al proprio vissuto e alla propria personalità. Un cinema degli affetti, doloroso, vero, autentico come pochi altri in giro. In J’entends plus la guitare si dice: “siamo l’ultima generazione a parlare d’amore”. Vista la tiepida accoglienza che quest’ultimo ha riscosso qui al lido dobbiamo riconoscere, non senza tristezza, che aveva ragione.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 05/12/2014

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