Partiamo da lontano.
Partiamo da Josef Von Sternberg che rifiutava di filmare l’acqua vera, perché credeva nel cinema solo come trasfigurazione della realtà. E passiamo a Federico Fellini e al suo mare di plastica: il teatro cinque di Cinecittà come esempio massimo del vuoto, come struttura da riempire, come mondo da creare, come corpo nudo da rivestire. Il cinema che rifiutava l’ottica del doppio, la mimesi dello sguardo, manifestando una realtà altra, indipendente, autonoma, con leggi e norme specifiche da seguire e rispettare. Il finto felliniano era perfettamente credibile, mai artefatto piuttosto rarefatto: non si opponeva al sacro, fondativo principio di sospensione dell’incredulità, anzi lo ossequiava e venerava, decidendo di credere e di far(si) credere. Il cinema per Fellini era incanto, meraviglia e bugia, ma ogni menzogna si rivelava più autentica, più straordinaria, più vera del vero. L’aspetto fondamentale, impossibile da trascurare, è uno soltanto: Federico Fellini era un gran bugiardo, Ettore Scola non lo è mai stato. Forse è proprio questo il problema.
Nell’irresponsabilità stessa di un progetto che unisce finzione e materiale di repertorio, che riesplora gli incontri fra i due registi, che cerca di rifare (male) Fellini, Scola dimentica di essere, prima di tutto, un regista ben diverso. Ne consegue un tradimento (o violazione) dell’immaginario stesso del maestro riminese: il finto di Che strano chiamarsi Federico non è credibile, ma è palesemente montato, privo di consistenza, di una fragilità fatta di pixel e non più di carne. E’ come trovarsi di fronte a un fotomontaggio in movimento che alla trasfigurazione preferisce l’ibridazione da cartolina, la riunione posticcia, il gioco pacchiano, il simulacro senile di orizzonti diametralmente opposti. Scola incolla frammenti discordi, alterna colore e bianco e nero senza alcun rigore, annegando in un oceano kitsch digitale e mortuario. Ecco perché la sensazione di trovarsi di fronte a un’operazione sacrilega cresce durante la visione: il sacrilegio è nel suo aver frainteso cos’era veramente il cinema felliniano, nella sua incapacità di rintracciarne il cuore, nel suo aver fatto dell’illusione un sentimento a buon mercato: vera e propria ricostruzione infedele di un passato autoreferenziale.
Non si dubita qui delle buone intenzioni, del fatto che quello di Scola sia effettivamente il tentato omaggio a un amico, ma è legittimo discutere del risultato: perché, prima di tutto, Che strano chiamarsi Federico è il film su Ettore Scola (ma non di Ettore Scola), sul suo continuo, fastidioso richiamarsi in scena, al punto tale che Fellini diventa una macchietta lontana dall’uomo, non mito riedificato ma stereotipo iconizzato: ecco allora la banalizzazione di un pensiero e di una poetica, veicolata da quella meravigliosa vocina che accompagna mondi privi di umanità, più vicini al linguaggio della pubblicità che a quello del cinema. Dalla redazione del Marco Aurelio (per cui passarono entrambi i registi) al cinema, dalle collaborazioni e l’amicizia con Mastroianni alle pagine glamour degli oscar, il film di Scola è quasi un album di ricordi patinati: all’interno di un automobile gli attori che interpretano Scola e Fellini, silhouette in un bianco e nero digitale, discutono di cinema, donne e arte mentre il mondo fuori dal finestrino ha i colori glamour di un immagine post-celluloide, photoshoppata e color corretta. Fellini in salsa remix dunque, tra estratti di repertorio, fotografie, quadri e bozzetti, fino a un montaggio finale che sembra più un fan-made, un best-of di youtube che il ricordo, sentito e commosso, di un grande regista come Ettore Scola.
Pareva un omaggio, si rivela un oltraggio.