True Detective 2x04 - Down Will Come

Un ponte in dissolvenza tra passato, presente e futuro: fino all'ultimo fondu.

Los Angeles, città/impero tentacolare ed intestina, si bagna di sangue. L’asfalto si tinge di rosso, dall’alto piove guerra e le pallottole fischiano tra le strade, non siamo su un set cinematografico questa volta, non si esplodono pallottole di gomma, i colpi uccidono mentre il corpo di un intero quartiere inizia a sanguinare. Una carneficina che porta con sé il dolore del sangue si confonde in dissolvenze - prima dell’ultimo fondu – mista a ricordi di passati che risalgono a galla come conati acidi di fiele: mal digeriti.

La sterilità di un terreno che non nutre e secca i raccolti, un suolo fecondo solo al sangue che su di esso si riversa. Non nascono avocado se non li si nutre con una carneficina. In apertura Frank Semyon, personaggio che più di tutti stigmatizza l’american criminal dream, tra salite e discese di potere, rincorso da una povertà da cui nessun povero è mai abbandonato, ci introduce in una puntata dove la sterilità, personale, territoriale ed affaristica, necessita di sangue e musi duri per continuare a procreare e ricostruirsi.

La dissolvenza, grammatica essenziale dell’ellisse temporale, ci presenta il passato ed il presente dei vari protagonisti, definendo la città come luogo putrescente che vive di ricordi individuali rimossi o allontanati, sottoesposti alla luce diurna in una penombra psicologica. Le aeree di una città che lascia scorrere nelle sue arterie-highways flussi sanguigni di persone è un corpo malato perché malate sono le sue cellule in moto. Malate di trascorsi celati dietro a teli troppo fini che consentono comunque di percepirne l’ombra, come l’istinto all’omosessualità mentre la compagna è in attesa di un bambino di Paul Woodrugh, che fugge a piedi dai paparazzi sciacalli (Velcoro sentenzierà di loro in macchina:"Meglio sbagliare ed arrivare primi che fare giusto ed arrivare secondi") che lo accusano di crimini di guerra (Falluja, Black Mountain, Tikrit) realmente commessi, mentre non può allontanarsi (dal ricordo) con la sua moto appena rubata. O come il passato della madre morta suicida dell’agente Ani Bezzerides che permane sulle statuette levigate in espressioni di follia baconiana, o nel distintivo di Ray Velcoro, oggetto che protegge il suo ideale morale dal marciume esterno restando cristallizzato dentro un cubo protettivo che lo isoli dalla corruzione.

Nic Pizzolatto ci ricorda che le rimembranze sono spesso oggetti ed è attraverso di loro che il passato si ripropone, ed è attraverso di loro che si riesce (o meno) a fuggirne. Puntata che definisce il passato lasciando aperture verso il futuro della serie, dai terreni contaminati della contea esposti a piombo, arsenico e mercurio non bonificati ("Forse è qui che vengono a seppellire i loro cadaveri" – una nuova terra dei fuochi?) al bagno di sangue finale che azzera il passato precedentemente esposto puntando dritto verso un futuro efferato sopra un terreno che solo il sangue sa far germinare. Racchiudendo il tutto nell’immobilità di un ultimo frame - caro al cinema di Mann - che depone il passato all’interno di un diorama infernale ed insanguinato, da lasciarsi guardare all’infinito senza un movimento che ne corroda la composizione, per un ultimo ricordo, di ciò che è stato e di ciò che inevitabilmente nelle puntate successive sarà. "Certi istanti ti guardano dentro, non sei tu a ricordarli. Giri l’angolo e te li ritrovi lì, a guardarti".

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 14/07/2015

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