True Detective 2x01 - The Western Book Of The Dead

Torna la serie evento della HBO con una premiere che si distacca di molto dalla precedente stagione ma promette di condurci in abissi noir di altrettanta intensità

Da qualche giorno a questa parte fare paragoni tra la premiere della seconda stagione di True Detective e l’intera prima stagione (cosa errata e fuorviante non solo dal punto di vista metodologico) è diventato lo sport nazionale, un po’ come essere il C.T. della Nazionale durante i Mondiali di calcio. Nella presente recensione quest’operazione verrà limitata il più possibile, salvo quando ritenuta strettamente necessaria.

Leviamoci immediatamente il primo dubbio: True Detective, serie antologica di genere, lavora attorno alla prismatica natura del noir, che nella prima stagione ha visto raccontato uno dei suoi volti più interessanti in una maniera tra le più originali. La strada in questa seconda stagione, a giudicare dagli esigui elementi che per ora abbiamo (un episodio), è completamente diversa: dimenticatevi le profondità filosofiche dei monologhi di Rusty Cohle, la portata metafisica dell’opera, la cornice esistenzialista che dava agli otto episodi un respiro universale e a-storico; in questo caso siamo di fronte a un noir di tradizione profondamente diversa, che attinge dalla letteratura hard boiled (da Hammett a Chandler) e dall’immaginario di James Ellroy, che prende Los Angeles e la fa diventare il protagonista principale e più deturpato, eleggendo, infine, come riferimenti cinematografici la California orrorifica di Mullholland Drive e le perversioni losangelinee di Chinatown.

Non parliamo di True Detective però se non ci spostiamo, anche solo per un attimo, su quella cosa che già dal titolo si presenta come la locomotiva della serie, ovvero quei detective, e più in generale quei personaggi principali il cui approfondimento è evidenziato da quel “True”, a volte sincero, altre volte beffardo, altre ancora antifrastico.

Il primo, quello con più screen time, quello di cui abbiamo conosciuto prima l’incarnazione attoriale (Colin Farrell), è Ray Velcoro, poliziotto dal passato tormentato e dal presente non meno incasinato. Anni fa la moglie è stata stuprata e quello che ha da sempre trattato come suo figlio potrebbe essere legato a quel terribile incidente. Non c’è pace nell’anima di Ray e sebbene nelle prime scene un interrogatorio ricordi quelli di Rust, Nic Pizzolatto ci priva dell’andare davvero in fondo alla sua anima e al suo passato, trattenendoci in un presente fatto di insicurezze e gesti istintivi, disperazione e scatti di rabbia incontenibili. Dietro, ma soprattutto accanto a lui abbiamo Frank Semyon (Vince Vaughn), ex gangster che, come tanti di quelli che non sono né morti né andati in galera, si è rifatto il volto e la reputazione entrando nel mondo degli affari, supportato dalla compagna Jordan (Kelly Reilly), vera e propria Lady Macbeth ricontestualizzata, molto più che una bussola per Frank. La terza figura maschile è rappresentata da Paul (Taylor Kitsch), fino ad ora il personaggio meno approfondito, un veterano di guerra con seri problemi relazionali, difficoltà sessuali non ancora chiarite, traumi di ogni tipo e tendenze suicide tutt’altro che confortanti. In ultimo abbiamo quella che fin dall’inizio è stata la maggiore novità tra quelle annunciate, cioè, Antigone, il famoso personaggio femminile interpretato (per ora in maniera estremamente efficace) da Rachel McAdams, donna forte ma profondamente turbata e segnata da una vita di sconfitte, rinunce e compromessi. Il suo personaggio è tra quelli più approfonditi, anche per via dell’introduzione di due suoi familiari, la sorella e il padre: la prima, Athena (“The Goddess of Love”), è il suo opposto, irresponsabile e impertinente, reazione uguale e contraria a un’educazione lontanissima dall’essere stata serena; il secondo rappresenta una messa alla berlina di tutte quelle figure di guru che stanno nella forbice tra la cultura hippie e quella new-age, ma che nel bellissimo dialogo con la figlia in pochi secondi le offre un ritratto che pesa come un macigno.

Arriviamo all’altra appendice semantica della serie, la detection, quella linea narrativa che certifica l’attribuzione di genere e veicola sia lo sviluppo dei personaggi, sia lo stile del lavoro. Questa volta, se possibile, si tratta di un mistero ben più complesso, almeno sotto alcuni punti di vista.

Lo scorso anno l’enigma era sì incredibilmente intrigato, ma anche legato a un singolo soggetto (sebbene la sua risonanza metaforica si spingesse molto oltre), un demonio incarnato. Stavolta è diverso. Il nucleo carico di senso e di complessità dell’anno scorso ha subìto un processo di decostruzione e polverizzazione radicale e, delocalizzato in California, ha visto una progressiva gemmazione che ha prodotto molteplici particelle di terrore. Il Male arriva da più fronti, dalla politica, dalla criminalità organizzata, dall’immigrazione, dalla noncuranza e, soprattutto, dalla banalità quotidiana. Tutti fattori intimamente intrecciati, inerzialmente tesi a costruire una matassa inestricabile, dove politica e criminalità sono indistinguibili e dove buona e cattiva condotta possono rappresentare parti di uno stesso percorso. Che sia un dirigente comunale (principale vittima dell’episodio) o una giovane donna come tante altre, le vittime sono sempre più dei carnefici e questi ultimi stazionano su una coltre di anonimato che li rende inavvicinabili.

L’ambiguità, l’indiscernibilità paludosa della narrazione e dei suoi rapporti di forza, si riflette sui personaggi principali, in particolare su Ray e Frank, figure dal carattere anfibolico, perennemente incastonate tra volere e dovere, tra un destino apparentemente segnato e un presunto quanto disperatamente ricercato libero arbitrio. Ray, poliziotto della fittizia cittadina di Vinci, è un personaggio bifronte come pochi altri, tanto che da anni (come sottolinea il flashback) è legato alla figura di Frank, il quale in passato ha usato le sue illecite facoltà per portare a termine la vendetta per conto dell’uomo di legge. Ray e Frank sono l’uno lo specchio dell’altro, come dimostra anche la splendida scena al pub del finale, in cui il loro legame è sancito da una regia che acutamente li mette in stretta e geometrica relazione, caricando ulteriormente il rapporto fatto di reciproci scambi di favori (dove favori si può leggere tranquillamente come omicidi) che da anni li lega. La prima impressione è che i due si trovino in condizioni opposte: Ray è in fase profondamente autodistruttiva, tanto da utilizzare la difficoltà del figlio per sfogare un malessere interiore in grado di produrre esplosioni di violenza di rara brutalità; Frank, invece, proprio in virtù di una situazione familiare in crescita, pare indirizzare ogni sua azione sui binari della legalità e della serenità personale, pur senza mai perdere il suo potere politico, aiutato in quest’operazione dallo straordinario (anche se per ora solo tratteggiato) personaggio della compagna Jordan.

Non si può a questo punto non parlare della sigla, quell’oggetto paratestuale spiccatamente televisivo che da diversi anni a questa parte ha iniziato ad assumere, soprattutto in alcuni casi, un carattere significante e preliminare, quasi fosse una dichiarazione di intenti. Dopo esserlo stato l’anno scorso, quest’anno il messaggio pare ancora più incisivo, sia per il lavoro grafico probabilmente ancor più meticoloso, sia per la scelta della canzone sulla quale scorrono le immagini, Nevermind di Leonard Cohen. Le parole parlano chiaro e sembrano descrivere ad ampie pennellate, con la voce ferma e profonda dell’autore, quelli che poi scopriremo essere i personaggi principali. Una strofa come “I had to leave/My life behind/I dug some graves/You’ll never find” non può non rilanciare il discorso sull’inadeguatezza dei caratteri, in particolare di quello interpretato da Colin Farrell, a cui si può attribuire qualsiasi cosa, tombe che non saranno mai scoperte e soprattutto una vita alle spalle irrecuperabile. Quel “Nevermind” risuona come un’imprecazione, una richiesta d’aiuto e un anatema allo stesso tempo; in tutti i casi è il segnale di una resa definitiva, il “liberi tutti” deresponsabilizzante dopo il quale ogni personaggio dimentica qualsiasi bussola abbia mai avuto nella vita. Quel che rimane è il denaro, strumento disumanizzante per eccellenza, eppure unico legame con ciò che di umano è rimasto in questa sottospecie di civiltà. Il denaro è ciò su cui si fonda l’impero di Frank, ciò che lo trasforma da gangster a imprenditore e che potrà rendere le prossime generazioni, per parafrasare un dialogo tra lui e il suo cliente transilvanico Osip, figlie legittime della California, non importa sulla pelle di chi e di quanti. Il denaro che avvicina e vorrebbe avvicinare Ray al suo avvocato, così come quello che salda il rapporto con la cameriera del pub nel finale, anch’ella non a caso sfigurata, l’ennesima faccia della distruzione fisica e morale del contesto messo in scena.

The Western Book of the Dead si porta via per sempre l’idea di personaggio e soprattutto di mondo incarnata da Rusty Cohle nella prima stagione, quella convinzione per cui anche nel più disperato dei contesti sociali vi è la possibilità di una figura di rottura in grado di mettere in crisi l’esistente, di portare una riflessione filosofica di spessore. Di questo rimane solo la sua caricatura deviata incarnata dal padre di Antigone, che piega il predicatore Rust in qualcosa di molto simile a un venditore di tappeti. Non ci sono più i campioni, i fenomeni, le eccellenze, al loro posto solo una terribile e spiazzante medietà, un’umanità disperata e priva di qualsiasi carisma, una pletora di mediocrità il cui degrado copre qualsiasi tipo di qualità o presunta tale.

I personaggi, veri cavalli di razza lo scorso anno, oggi sono né più né meno che brandelli narrativi in avaria, cellule di un organismo complesso, quanto in avanzata metastasi, che si chiama Los Angeles, le cui componenti gridano aiuto senza sosta; un contesto in cui il cadavere del dirigente comunale sulla panchina nel finale attorno a cui si piazzano i personaggi è il correlativo antropomorfo dell’aridità mortuaria raccontata e messa in scena sino a quel momento, di quell’umanità privata di ogni qualità, che non può far altro che bere e intossicarsi, quando non è completamente in fuga, dal presente e dal passato. Il corpo marcio della vittima, privato simbolicamente della vista, è la metafora di quella vita fatta di abusi – visivi e corporali, come l’abbondanza di perversione accumulata nel suo appartamento sembra ricordare – e di autorità dissipata e corrotta, che cozza con quella che dovrebbe essere una delle più alte cariche cittadine. È qui che finisce il primo episodio della seconda stagione di True Detective ed è da qui che ripartirà domenica prossima, senza mollare, crediamo, quella desolazione esistenziale che in un’ora è stata rappresentata con grande intensità.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 25/06/2015

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