Torino 2013 / Plastic City

San Paolo, Brasile. Il quartiere di Liberdade è controllato dal boss cinese Yuda, il cui impero fondato sugli introiti della pirateria sembra invincibile. Il numero due è il suo figlio adottivo, Krin, giovane ed esuberante giapponese alle prese con la maturità, in bilico tra l’amore per la propria donna e il peso dell’impero che è destinato ad ereditare.

Il cinese (ex Hong Kong) Yu Lik-Wai dirige un lavoro di rara esuberanza, per trama, ambientazione, fotografia e ambizioni. Plastic City è un film artefatto, innaturale, di plastica, costruito per cambiare, un’opera scissa fin dall’incipit, vittima di una dualità estremamente simbolica, testimone dell’universo raccontato. Da un lato la Foresta Amazzonica, il polmone verde più grande del mondo, il luogo dove si concentra la più alta biodiversità del pianeta Terra, che è solo una delle facce del Brasile, stato stravolto da una crescita economica sfrenata che non ha risparmiato morti e feriti di ogni sorta; dall’altro la sua seconda metà, rappresentata perfettamente dalla due megalopoli del paese: San Paolo e Rio de Janeiro. Non il classico scontro tra natura e cultura, ma la contaminazione reciproca di due mondi sfruttati, due anime grandiose solo in potenza, ma afflitte da un progressivo sgretolamento etico, valoriale, biologico. Tuttavia quella brasiliana è solo una delle due anime del film, in quanto l’autore riempie il variegato contenitore sudamericano dello spirito dell’Estremo Oriente, mettendo in scena la lotta tra clan, e i relativi potentati locali, nel multietnico quartiere di San Paolo.

Nato gangster movie, Plastic City è una creatura mutante che sulle orme dei suoi protagonisti cambia la sua natura, finendo per diventare una tragedia classica, alla ricerca degli miti ancestrali, a cominciare da Edipo. Se l’impostazione narrativa è quella del tradizionale canovaccio criminale hongkonghese, con tanto di raffiche di proiettili, coltellate di varia natura, regolamenti di conti, tradimenti e strip club, protagonisti di debordanti sequenze erotiche (come quella delle uova), è il piano formale che impressiona maggiormente e dona originalità all’opera. Yu Lik-Wai oltre a essere un autore dalla poetica profondamente vitale è anche lo storico collaboratore di Jia Zhang-Ke (pedina senza la quale i film del regista di Still Life non sarebbero gli stessi), operatore e direttore della fotografia di rara sensibilità. Alla luce di ciò appare ancora più maturo e lucido il discorso che l’autore fa sulla forma, un approccio estetico carico di teoria, che ragiona utilizzando i piani della messa in scena e ciò con cui questi vengono riempiti con grande consapevolezza e coerenza. Da una parte abbiamo città come spazio bidimensionale dell’omologazione e la speculazione edilizia come emblema di un’economia conformista, disumanizzante e prevaricatrice; dall’altra la tridimensionalità della vita in primo piano, degli scontri tra clan, di una guerra tra poveri che da gangster movie diventa tragedia greca, passando per il manga e con le sue forme stilizzate. Tali scelte portano l’autore a operare un preciso discorso estetico ed etico, in cui l’alternanza e la sovrapposizione tra la cupezza degli sfondi e l’iperrealismo delle figure in primo piano, assumono un ruolo sintomatico.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 14/10/2014

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