Torino 2013 / Only Lovers Left Alive

Only Lovers Left Alive, solo gli amanti sono rimasti in vita: nelle quattro parole del titolo è racchiuso l’intero significato dell’ultimo, magnifico film di Jim Jarmusch, presentato in un’attesissima anteprima italiana alla 31° edizione del Torino Film Festival. E come in una serie di splendide matrioske, ecco che all’interno dell’opera vediamo schiudersi quello che si può definire un compendio dei 33 anni di attività cinematografica del regista nativo dell’Ohio, ma ormai newyorkese fino al midollo: c’è tutto Jarmusch in questo film, con i suoi personaggi perennemente in viaggio, dal memorabile trio Lurie/Benigni/Waits di Daunbailò (1986), passando per Taxisti di notte (1991, a cui quest’opera rimanda nel suo essere profondamente notturna) fino ad arrivare al fuggitivo Johnny Depp/William Blake di Dead Man (1995). Una fuga da se stessi e da ciò che si era per entrare in una nuova pelle, rinascita simbolica che proprio in Dead Man viene esplicitata in quanto vero rituale di passaggio.

Il cinema di Jarmusch è fatto di volti, parole, musica ma soprattutto umane emozioni: l’Amore, nella sua accezione più ampia, e la vita stessa sono al centro di Only Lovers Left Alive: ironicamente, i protagonisti sono vampiri, da sempre definiti non-morti, ma il vampirismo è ovviamente soltanto metafora, raffinato (e rischioso) veicolo di un discorso ben più complesso, che si cela sotto un narrato in apparenza semplice e lineare. Adam ed Eve, interpretati da Tom Hiddleston e da una superlativa Tilda Swinton, si amano da secoli, forse, da sempre: poiché i nomi dei personaggi, nelle opere di Jarmusch, non vengono messi a caso e ciò che a primo acchito può apparire banale è in realtà denso di significato, un indizio che viene successivamente elaborato al fine di schiudere il suo reale senso. Così come non è fortuito che l’anziano vampiro interpretato dall’ineguagliabile John Hurt si chiami Christopher Marlowe detto Kit, antagonista di William Shakespeare, e che tra i vari pseudonimi usati dalla coppia si ritrovino nomi come Dedalus e Daisy Buchanan (Joyce e Il grande Gatsby), o ancora che vengano chiamati in causa, come vecchi compagni d’avventure di Adam, Lord Byron e Percy Bysshe Shelley.

Chi conosce questo cinema sa bene che non ci si trova di fronte a citazionismo spiccio o sfoggio di nozioni letterarie: questi riferimenti altro non sono che manifestazioni di quel giò citato amore, in questo caso per la parola scritta, quello che rende Eve bibliofila e la spinge a partire con valigie colme unicamente di libri. In un mondo che va allo sbando, in cui la cultura prende il nome di YouTube, Adam e Eve difendono l’Arte come ultimo baluardo della bellezza e come manifestazione suprema d’amore. Per Adam (e per Jarmusch stesso) c’è la musica: il film si apre con la splendida, vorticosa sequenza di un 45 giri ripreso dall’alto, in moto rotatorio, così come i due protagonisti, sdraiati dopo aver sorseggiato il sanguigno nettare da bicchierini, e non tramite morsi selvaggi. Adam ed Eve, in realtà, vivono lontani l’uno dall’altra: lui a Detroit, la città della Motown ora ridotta in macerie e simbolo della fine di un’epoca, musicista che non vuole divulgare ciò che crea, tentando di custodirlo per se stesso (invano, poiché la sua musica si può ascoltare ovunque), figura funerea come le sue composizioni, cupo e depresso, nerovestito e dai capelli corvini, che vive nel passato, tra chitarre d’epoca e televisioni vintage che all’occorrenza diventano schermi per videochiamate. Eve è il suo bilanciato opposto, presenza abbagliante dalla pelle candida e i capelli platinati: le sequenze che la vedono camminare per le strade di Tangeri di notte, vestita completamente di bianco, sono di una bellezza mesmerizzante. Tangeri la rispecchia, così come Detroit è l’anima nera di Adam: qui si ritrova un’altra caratteristica peculiare del cinema di Jarmusch, ossia gli spazi e ambienti che prendono vita nell’essere riflesso della personalità e del mood di chi li abita.

Il regista usa la metafora del vampirismo in primis per la prerogativa dell’immortalità, non soltanto intesa come impossibilità di morire ma soprattutto in quanto essere realmente vivi: ecco dunque la chiave di volta del titolo, coloro che si amano e che con pari intensità provano passione per la Bellezza e per l’Arte. I vampiri definiscono gli umani in quanto zombies, e qui si ritrova uno dei punti più importanti e interessanti dell’intera opera. Ian (Anton Yelchin) è l’unico tramite di Adam col mondo esterno, sorta di pusher che dietro lauti pagamenti gli procura ciò di cui ha bisogno, così come l’ematologo da cui si rifornisce di sangue, che non esita a dar fondo alle riserve dell’ospedale per una bella mazzetta di dollari. Gli umani, li si compra con un po’ di pezzi di carta, in fondo, e portano avanti le loro esistenze in modo automatico, quasi animalesco, soddisfando i bisogni primari e le pulsioni più basse. Adam e Eve rappresentano, in un certo qual modo, la razionalità e l’equilibrio: Ava (Mia Wasikoswa), sorella minore di Eve, è il tornado che arriva tra loro, vampira giovane e affamata, scatenata ed esposta a quei rischi dettati dall’inesperienza. Come accade agli umani, del resto. Il film è impeccabile anche dal punto di vista tecnico, con una splendida fotografia che gioca sui contrasti (a opera di Yorick Le Saux), e il sapiente lavoro di montaggio di Affonso Gonçalves. Eccelso lo score composto da Jozef van Wissem e le scelte musicali, tra cui spicca la splendida Hal di Yasmine Hamdam, che accompagna un finale aperto e decisamente azzeccato. Le opere di Jim Jarmusch raramente rappresentano dei colpi di fulmine: sono innamoramenti lenti, che crescono nel cuore quasi senza rendersene conto, e questo è più che mai vero per Only Lovers Left Alive, film che sedimenta a distanza di diverse ore dalla visione. Ma una volta radicato, è uno di quei rari amori che non ci abbandona più, l’unico amante che resta realmente vivo.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 14/10/2014

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