Torino 2013 / Luton

Una donna di mezza età senza più sogni da rincorrere e una carriera da avvocato, ormai lontana dalle floride aspettative del passato; un giovane di ricca famiglia senza alcun obiettivo da raggiungere e sentimenti che non riesce a esprimere; un impiegato di un minimarket che trascorre le sue giornate alternando senza apparente differenza il lavoro alla famiglia, sommerso da una raggelante infelicità. Un tempo la Grecia fu la culla della civiltà occidentale, la patria della filosofia, il primo e più imitato modello di democrazia compiuta, oggi è il paese del debito, l’ultima ruota del carro di un’Europa assente, una terra dove il degrado economico e morale prende le forme della spersonalizzazione e dell’abbandono di ogni spirito di sopravvivenza costruttivo. Il regista Michalis Konstantatos confeziona un film brutale, sia per l’asciuttezza della maggior parte della sua estensione, sia, viceversa, per l’antitetico e imprevedibile finale. Nulla dell’epilogo sarebbe comprensibile senza un’accurata analisi, narrativa e formale, di tutto ciò che lo precede. Luton, infatti, è un film character oriented, perennemente alla ricerca delle vite dei suoi personaggi, attraverso un pedinamento costante, alternando le rispettive vicende e selezionando accuratamente i frammenti di vita da mostrare, conferendogli un portato altamente simbolico.

Da questo punto di vista l’incipit assume una valenza programmatica grazie alle presentazioni in sequenza di ciascuno dei tre personaggi. La prima è Mary ripresa mentre corre sul tapis roulant; di lei non vediamo che frammenti del volto e della spalla, ripresi con una macchina a spalla che non smette mai di tremare, perfetta nel rendere la frenesia di una corsa, quella della donna verso la propria autodeterminazione, come donna e come avvocato, una corsa vana, fallimentare, un falso movimento, proprio come quello sul tappeto della palestra. Successivamente c’è Jimmy all’uscita da scuola, mostrato con altrettanto metodo, ma con uno sguardo antitetico: la macchina da presa rimane sempre fissa, in un piano sequenza che lo riprende da lontano, mentre tutti i compagni di classe si allontanano lasciandolo abbandonato alla propria solitudine. In ultimo c’è Makis, di turno sul proprio posto di lavoro, quasi sempre fuori campo ad esaltare la precisione della messa in scena dell’autore che usando con grande consapevolezza la ripresa a macchina fissa compone il quadro di una serie di elementi che fungono da correlativi oggettivi del personaggio, dalle riviste e alla bibita gassata, dalla musica che passa in radio alla tv, con una sigaretta nel posacenere a sottolineare e celebrare la ripresa in continuità. Col procedere del film emerge quanto l’incipit sia un vero e proprio modello da seguire, manuale d’istruzioni per narrare le tre storie per accumulo, puntando quasi esclusivamente sui momenti di riflessione a discapito di quelli in cui prevale l’azione. Soprattutto inizialmente, dei tre personaggi viene mostrata la dimensione pubblica in tutta la sua rituale monotonia, in cui anche il piacere privato si manifesta come un momento rubato a un’avvilente quotidianità. Sintetizza perfettamente questo concetto la sequenza di Mary al negozio in cui, dopo aver scelto con precisione i capi con i quali potersi immaginare come vorrebbe essere e non è, va in camerino dove però al posto di indossarli indugia allo specchio in un momento di autoerotismo sottratto alla sua triste esistenza. Una vita a cui i personaggi non riescono a dare più nulla, rimanendo chiusi nel proprio guscio quasi fosse una forma di autodifesa, come Jimmy che non riesce neanche a rispondere alle più semplici palline da tennis lanciategli dal proprio istruttore preferendo farsi colpire invece di reagire.

Tale somatizzazione alla lunga non può che emergere in superficie, che sia attraverso il sangue fuoriuscito dal naso di Jimmy o le efferatezze del finale. Prima, però, c’è tempo per la sequenza più potente dell’opera, girata con un rigore estremo, capace di sintetizzare da sola l’intero film. Si tratta della scena di sesso tra Makis e la moglie, ripresa in piano sequenza con la macchina fissa che incornicia i personaggi in un claustrofobico rettangolo: le unità di tempo, spazio e azione sono perfettamente allineate, lo stipite della porta divide l’immagine in due ambienti, in uno la moglie si spoglia e subito dopo nell’altro i due fanno sesso forzatamente, sul tavolo, riempiendo i lunghi minuti con uno squallore esistenziale difficile da sostenere. Ultima, inevitabile menzione sul finale, completamente opposto a tutto ciò che sullo schermo è apparso fino a quel momento, carico di violenza efferata e senza senso, formalmente caratterizzato da un montaggio serrato che raggiunge altissime velocità, come un raptus improvviso. Sono minuti che esulano dall’inflessibile realismo del resto del film, immagini dallo statuto altamente metaforico, presagio di una reazione incontrollata e incontrollabile, paura e al contempo minaccia di un popolo nei confronti di se stesso e dell’Europa intera.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 14/10/2014

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