The Walker (2007)

Nei vestiti firmati di Woody Harrelson si scrive la riflessione sulle forme del genere, il senso di fare cinema, il tempo che passa.

The Walker doveva essere il sequel di American Gigolò: è la sua trasformazione in qualcos’altro che lo rende peculiare nel percorso estetico e concettuale di Paul Schrader. Nella sceneggiatura finita dal regista nel 2003, e concretizzata in film nel 2007, al centro c’è ovviamente un gigolò: a Washington, oggi, Carter Page III (Woody Harrelson) è un uomo elegante e omosessuale, figlio di un celebre politico scomparso, che fa da accompagnatore per ricche signore. Una di loro, la moglie di un senatore Lynne Lockner (Kristin Scott Thomas), è ormai legata a Carter da una profonda amicizia: quando il suo amante viene ritrovato assassinato il protagonista si fida di lei, la giudica innocente e decide di coprirla.

Non è certamente la successione degli eventi che sostanzia il racconto, il suo dispositivo giallo e l’avanzare a passo di thriller, bensì la riflessione sul mezzo cinematografico di Schrader che già si indovina nel confronto con il film del 1980: The Walker riprende molti spunti di American Gigolò, primo fra tutti il meccanismo principale dell’accompagnatore sospettato di omicidio, ma allo stesso tempo se ne distanzia in modo decisivo. Al contrario del Julian Kay di Richard Gere, in primis, Carter Page non è un gigolò trentenne ma un uomo di mezza età, e soprattutto è gay in un rovesciamento radicale dell’icona Gere, non va con le donne ma si limita ad assisterle. Tutto sommato Julian è bello davvero, Carter è una montatura costruita da sé. A ben vedere non è neanche un gigolò: nella sequenza in centrale gli investigatori si interrogano ironicamente sulla sua possibile definizione e lo chiamano "walker", camminatore, con un’esplicita distinzione di senso rispetto alla pellicola precedente (divergenza sintetizzata nei rispettivi titoli). Come a dire che in ventisette anni è passato troppo tempo, gli anni Ottanta sono diventati i Duemila e il Gere gigolò non è più possibile, qui c’è solo un uomo maturo come attestato dalla scena iniziale in cui Carter/Harrelson si toglie la parrucca rivelandosi quasi calvo.

Mettendo allo specchio la costruzione dei film, inoltre, non si fa altro che confermare questa impostazione: se nel 1980 era il gesto d’amore di Michelle/Lauren Hutton a scagionare il gigolò fornendogli un alibi, qui il crimine si risolve nell’esercizio di genere, un esame di laboratorio porta a decretare il colpevole materiale e quindi l’estraneità del protagonista. Un passaggio dal sentimento alla scienza che diviene simbolo della differenza tra le opere e del tempo che scorre: Schrader sta diventando teorico, non mette sul tavolo i sentimenti ma un ingranaggio di genere, intavolando un’autoriflessione su cosa significa rappresentare una gigolò story qui e ora, dunque anche su se stesso. La sostanza sta lasciando spazio alla forma, si parla già del cinema e della possibilità di praticarlo oggi, siamo sulla strada che porta a The Canyons, storia di un produttore voyeurista in una Hollywood con le sale chiuse.

In sostanza, i due film di Schrader sono rappresentativi delle rispettive epoche: lo è ovviamente la pellicola del 1980, ma non meno quella del 2007. American Gigolò guarda al cinema americano degli anni Settanta, con il grande tema della paranoia che vede al centro un’accusa di omicidio, ma poi disegna un finale di struggente sentimento, con la nota sequenza tra Julian e Michelle che in carcere si dichiarano i rispettivi sentimenti: «I love you» è il suggello del film. The Walker contiene invece il nichilismo degli anni Duemila, l’implausibilità di credere in qualcosa (figuriamoci nell’amore) in un tempo in cui tutto è consegnato alla forma e il vestito diventa l’essenza.

Uscendo dal confronto con se stesso da giovane, Schrader sembra intendere The Walker come un aperto gioco di genere: a partire dall’inizio, con la cinepresa che perlustra l’ambiente facendoci ascoltare la partita a carte, per arrivare solo dopo a mostrare il protagonista. E basti vedere - ancora - la naturalezza con cui avviene la prima rivelazione su Carter (la parrucca), un atto che si compie senza suspense, chiarendo subito che siamo nel puro dispositivo, e qui il corpo conta solo come oggetto da manipolare. Nell’intreccio si ritrovano temi chiave schraderiani, certo, come il legame tra sesso e morte con l’attività del walker che presto si incaglia sull’omicidio; i rapporti complessi di paternità, con Carter che continuamente si confronta con la figura del genitore defunto, di cui porta lo stesso nome, stimato da tutti e sulla carta tradito dal figlio; la verità dietro alla superficie e l’immagine pubblica come velo che nasconde un torbido intimo.

Motivi senz’altro presenti, ma qui declinati secondo una concezione squisitamente formale: Carter è molto elegante, veste stoffe pregiate, è estremamente educato al punto che la sua posatezza serve a nascondere l’essenza (solo nel momento più caldo dell’indagine dirà «fuck!»). È un uomo-abito, che quella impostazione formale ha scelto e coltivato pazientemente («Non sono ingenuo ma superficiale»), ed è proprio sulla superficie del genere che Schrader sta ragionando. L’intera figura di Carter, posticcio e consegnato allo sguardo; il suo continuo vedersi allo specchio, scrutando il riflesso per verificare la forma; la sequenza dell’amante Emek (Moritz Bleibtreu) che viene minacciato puntando una lama sull’occhio, citazione al cinema surrealista; la foto rubata di Lynne che mostra l’adulterio, configurando un possibile ricatto ancora una volta affidato all’immagine: tutti elementi che disegnano un film sull’esteriorità, che rispetta il thriller e come tale funziona (alla fine il caso si risolve, il protagonista prende coscienza), ma che inscena soprattutto una riflessione sulla pelle del genere. Schrader ne frequenta gli archetipi, come nel magistrale inseguimento decisivo giocato sulle diverse angolazioni della macchina da presa: è così che ripone in Carter un interrogativo sulla possibilità di fare cinema oggi, in senso maturo e consapevole, del film come replica di altri film, che si ripete lucidamente in un gesto malinconico di discussione sull’arte che si va praticando.

La parte minore di Natalie è uno degli ultimi ruoli di Lauren Bacall, sempre magnifica.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 04/12/2017

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