The Search

Feroce analisi metalinguistica sulla rappresentazione della guerra, limitata solo da una lettura troppo dogmatica della crudeltà umana

The Search compare in un difficile momento storico dove inizia a traballare l’antica sicurezza vecchia di settant’anni, per la quale la guerra non è più una cosa che ci riguarda in prima persona, ma piuttosto ciò che se accade succede in un altro contesto lontano dalla nostra “pace” occidentale (questo ovviamente considerato nell’ottica dell’esperienza dell’autrice di questo articolo, che presume non si differenzi molto da quella dei suoi probabili immediati lettori). In questo contesto il nuovo film di Michel Hazanavicius sembra racchiudere in sé i principali tre modelli narrativi cui è solita far riferimento la cinematografica bellica: la guerra vista da chi la fa, da chi la subisce e da chi la osserva in una posizione neutrale.

Il conflitto in questo caso riguarda la Seconda Guerra Cecena al suo inizio nel 1999. Un bambino di nome Hadji assiste all’esecuzione dei propri genitori e scappa da un villaggio distrutto, cercando di portare con sé anche il fratellino neonato. Arrivato in un centro di rifugiati ne fugge subito, troppo spaventato dai volti dei soldati che ormai associa alla violenza vissuta, e vaga per la città finché incontra Carole (Berenice Bejo) funzionaria dell’Organizzazione Europea per i Diritti Umani, che lo porta a casa, cercando di superare l’ostacolo indotto dall’ostinato mutismo del bambino traumatizzato. Entrambi non sanno che la sorella del piccolo è ancora viva e intenzionata a ritrovare il fratello. Ad alcuni chilometri da lì si svolge parallelamente il forzato addestramento del soldato russo Kolia, il cui ruolo nelle vicende degli altri personaggi sarà chiaro solo alla fine.

Il film di Hazanavicius non può mancare di colpire lo spettatore, sottoponendolo alla visione delle atrocità perpetuate nei confronti di vittime inermi e, cosa forse più agghiacciante, di ragazzi innocenti sottoposti a un vero e proprio lavaggio del cervello funzionale a trasformarli in macchine di morte senza scrupoli. Non che gli organi esterni adibiti a portare aiuto ai rifugiati riescano a rivestire il ruolo di buoni, persi tra frustrazione, incomprensione e il generale disinteresse dei cosiddetti governi civilizzati a riconoscere la tragedia umanitaria in corso. The Search funziona sia come film di guerra che come riflessione metalinguistica sui modi del cinema di rappresentarne la complessità e va sottolineato a questo proposito l’inizio del film, affidato a una macchina da presa che imita lo stile casuale dei filmati amatoriali, introducendo alla storia sanguinosa della morte dei genitori di Hadji

Un’opera chiassosa, che mischia assieme lingue e musiche differenti, probabilmente anche come reazione istintiva da parte del regista al parlato muto del film che lo ha reso celebre, The Artist. The Search è una storia efficace perché estremamente dolorosa, ma alla fine si nega quel passo finale che l’ascriverebbe al livello di capolavoro, e sceglie di far proprio il concetto consolatorio che vede la guerra come qualcosa che ci succede, frutto di follia e non lucido ragionamento umano. La lettura di Hazanavicius delle vicende dei carnefici è troppo semplicistica: i veri cattivi sono sempre altrove, al limite dell’inquadratura, figure di stereotipata crudeltà, mentre l’abisso in cui precipita il cadetto Kolia, che accetta il meccanismo bellico per non rimanerne psichicamente sopraffatto, sembra delineare uno schema secondo cui è solo la pura cattiveria o la pazzia a imbracciare i fucili e uccidere persone innocenti. Una visione probabilmente figlia di quella idea della guerra come qualcosa fuori dal normale, senza senso, che finisce per delegittimare – o peggio, giustificare -le atrocità che si svolgono lontano da noi, in altri paesi, in posti e situazioni che crediamo non ci riguardino. Il Novecento ci ha però insegnato che il male non è follia, ma parte integrante dell’essere umano; solo quando questo pensiero diverrà finalmente elemento costitutivo del nostro modo di vedere la realtà, sarà possibile giudicare obiettivamente le nostre azioni più orribili.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 05/03/2015

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