The Handmaiden

Park Chan-wook mette in scena un dramma in costume che non convince, intrappolato nella sua vacua iconofilia.

Dopo l’incursione americana di Stoker, Park Chan-wook torna in patria per dirigere un sontuoso dramma in costume. Tratto dal romanzo Fingersmith (Ladra) di Sarah Waters (riadattato dall’Inghilterra vittoriana alla Corea sotto occupazione giapponese) The Handmaiden è una sontuosa messa in scena dell’immaginario del suo autore e di alcuni topoi tematici e di genere che gli appassionati del cinema sudcoreano troveranno famigliari.

The Handmaiden mette in scena un’elaborata sciarada sfuggita al controllo dei suoi giocatori. Il "conte" Fujiwara, truffatore e seduttore, intende impadronirsi della fortuna di una ricca e misteriosa ereditiera, Hideko (Kim Min-hee). La nuova dama di Hideko (Kim Tae-ri) è complice di questa truffa, ma il rapporto tra le due donne viene sconvolto dal tumulto dei sensi e dal desiderio di ribellione nei confronti degli uomini che hanno manipolato le loro vite.

Il racconto è scandito da tre atti, uno per ciascuno dei tre personaggi principali, e il gioco dei punti di vista ordisce una storia ricca di ribaltamenti e colpi di scena: ognuno dei protagonisti è truffato e truffatore, nudo e mascherato. Questo gioco di potere a tre si intreccia con le tematiche care a Park, dalla ribellione nei confronti del potere allo spettro ambiguo della seduzione. Sono le immagini, raffinatissime e teatrali, ad accompagnare lo sguardo. Bambole, pitture a tema erotico, gioielli e sete imprigionano i corpi delle donne, mentre lenti, buchi e fessure tracciano vettori dello sguardo che sono anche rapporti di potere: tutti osservano e sono osservati, attori e bambole, soggetti e oggetti del desiderio di qualcun altro. La verità dei personaggi si scioglie in un gioco di menzogne e dominazioni, perfettamente incarnate dalla figura quasi macchiettistica dello zio di Hideko, il conte Kouzuki: un padre padrone ingombrante proprio in quanto celato allo sguardo, che vive di pornografia e di messa in scena di tabù erotici e inibizioni sociali. Nella "sala delle letture" del maniero, il conte organizza letture di classici della pornografia che sono allegorie fin troppo esplicite della reificazione della donna sotto il patriarcato in generale, e la dominazione giapponese in particolare.

Materiale debordante ma incandescente, che avrebbe avuto un potenziale estetico innegabile; purtroppo, nel corso del film la sensazione che le buone idee non vadano oltre le loro seducenti immagini si fa sempre più palpabile. Il convoluto meccanismo narrativo, la composizione perfetta dell’inquadratura e l’inventario delle curiosità visive non bastano a riempire The Handmaiden di vita: al di là di una gustosa iconofilia, l’ultima opera di Park semba non avere molto da mostrare, e ancora meno da dire.

Il problema principale di Park Chan-wook è che soffoca il proprio stesso cinema, una volta così imprevedibile e destabilizzante. The Handmaiden è un film teso come un pesante drappo, zavorrato da immagini e idee ridondanti che si accumulano senza tregua e seppelliscono i lampi di genuina ispirazione che guizzano sotto traccia. Il regista di Old Boy e Lady vendetta vuole dire tutto, includere e spiegare ogni dettaglio, con l’ovvio risultato di non entrare mai nel merito delle questioni: il risultato è un minutaggio consistente ma mal distribuito, tra lunghe sequenze superflue e sottotesti abbandonati ad uno stadio larvale. Si veda, ad esempio, il già citato personaggio del conte Kouzuki, ridotto a una stampella narrativa per giustificare i traumi di Hideko e qualche scena di violenza.

La mente corre al manierismo di un altro autore, Peter Strickland, e al suo Duke of Burgundy, opera che stabilisce fin da subito un patto narrativo chiaro con lo spettatore: questa storia è una fantasmagoria, un gioco cinefilo e libertario da non prendere troppo sul serio. The Handmaiden manca di questa onestà e vuole essere troppe cose: dramma, storia, sensualità, pamphlet, allegoria politica e manifesto d’autore. Il risultato è la versione un po’ sbiadita e monotona del grande cinema di Park Chan-wook che abbiamo conosciuto e amato in passato.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 26/01/2017

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