The Green Inferno

Dopo sei anni di silenzio era tanta l’attesa per il ritorno di Eli Roth dietro la macchina da presa

Dopo sei anni di silenzio (tanti ne sono trascorsi dal secondo capitolo di Hostel), era tanta l’attesa per il ritorno di Eli Roth dietro la macchina da presa. Sei anni, più due durante i quali il film è rimasto bloccato nel limbo della distribuzione: The Green Inferno arriva ora, dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma del 2013, con il conseguente – e prevedibile – strascico di polemiche dovuto al presunto tasso di violenza, fomentato da una campagna pubblicitaria studiata a tavolino e dal divieto (incomprensibile, in verità) ai minori di 18 anni. Un film che nelle intenzioni vorrebbe ricollegarsi al famigerato filone dei cannibal movies italiani degli anni Settanta e Ottanta, inaugurato da Umberto Lenzi nel 1972 con Il Paese del sesso selvaggio e poi reso celebre da Ruggero Deodato con Ultimo mondo cannibale e, soprattutto, Cannibal Holocaust; e proprio da quest’ultimo deriva il titolo della pellicola di Roth, che nel 1979 era il “film nel film” grazie al quale lo spettatore poteva venire a conoscenza del terribile destino dei suoi protagonisti. Quasi quarant’anni dopo, cosa rimane di quel cinema e della sua eredità? In che modo approcciarsi a un genere che rimane incontestabilmente figlio della sua epoca, e della quale è ancora oggi uno specchio riflesso tutt’altro che trascurabile? Sono domande che Roth deve essersi certamente posto, dal momento che The Green Inferno non vuole essere un remake, né una riproposizione stantia di regole e suggestioni che oggi non avrebbero senso. E infatti l’unico approccio possibile, oggi, è quello di assumere la consapevolezza che quello di Deodato e Lenzi (ma anche quello di Sergio Martino e di Joe D’Amato, anch’essi autori di titoli riconducibili al filone) è, o meglio era, un altro cinema, lontano dalle traiettorie percorse dall’horror contemporaneo. Perché quella libertà, con tutte le conseguenze del caso (vedi le violenze sugli animali, ad esempio) oggi sarebbe impensabile in un prodotto indipendente, figurarsi in una produzione hollywoodiana. Ed è così allora che il film nasce con un desiderio di autonomia che non vuole incatenarlo al passato, per riuscire a vivere di vita propria; fallendo però miseramente nel suo intento, come adesso andremo a vedere.

Da un punto di vista narrativo, sembra esserci una sorta di filo sottile che unisce The Green Inferno al dittico di Hostel: anche qui infatti troviamo un gruppo di giovani americani persi e isolati in un contesto a loro straniero (l’Europa nei film precedenti, oggi invece la foresta Amazzonica), nel quale vene completamente ribaltato l’ordine dei ruoli che solitamente vede i protagonisti di nazionalità statunitense come padroni indiscussi del proprio destino. Un aspetto che deve stare molto a cuore a Roth, e che nei due Hostel aveva sviluppato con una (involontaria?) consapevolezza del genere e delle sue regole che ancora oggi è in grado di sorprendere. Hostel e Hostel – parte II rimangono infatti due testi imprescindibili per capire l’horror americano degli anni Duemila, nei quali la violenza si trasforma in un virus dilagante e inarrestabile che finisce per contagiare lo spettatore stesso (il primo film), per poi espandersi a macchia d’olio sorpassando abilmente confini fisici, ruoli e appartenenze sessuali (il secondo). Tutto questo viene accennato anche in The Green Inferno, nel quale la prigionia dei protagonisti civilizzati ad opera dei selvaggi indios vorrebbe sottolineare ancora una volta l’impotenza dinanzi al progredire dell’orrore (in contrapposizione a un’altra avanzata, quella del progresso nella giungla che gli attivisti del film vorrebbero contrastare). Ma stavolta il discorso non funziona, e comincia ben presto a manifestare tutte le proprie lacune. Vittima di una scrittura mediocre, The Green Inferno appare costantemente indeciso sul registro da prendere: sospeso tra momenti seriosi ed altri ai limiti del demenziale, si rivela un prodotto disomogeneo e incoerente, nel quale è impossibile provare empatia per i protagonisti o per quello che viene messo in scena. Non che la verosimiglianza sia un valore imprescindibile, tutt’altro: ma la sospensione dell’incredulità richiesta in alcuni frangenti supera abbondantemente qualsiasi limite, e alla fine ci si interroga su quale sia il vero scopo del film, impossibile da prendere sul serio ma neppure sufficientemente coraggioso nella sua follia per essere considerato veramente dissacrante. Rimane la delusione per il passo falso compiuto da un autore altrimenti interessante, questa volta troppo ancorato ai suoi miti cinefili (il cinema di genere italiano) per riuscire a metter in scena un orrore profondo e personale.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 16/10/2015

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