The Blind King

Una bambina muta, un re cieco, un padre fallito e il male di vivere possono condurre a un buon risultato

"Se fuori è il paradiso, qui dentro è il regno dei morti

passati da dolore a dolore senza averne sospetto"

Pier Paolo Pasolini

Che fine ha fatto il regista di Morituris? Era il 2011 quando Raffaele Picchio esordì nel lungo e, nonostante le controversie con la censura italiana che gli negò il nulla osta per offesa al buon costume, il film aveva un suo perché. Era, ed è tuttora, uno dei migliori horror italiani del nostro millennio. Nonostante ciò ci sono voluti cinque anni perché Picchio realizzasse il suo secondo lungometraggio. I tempi kubrickiani non sono comprensibilmente legati a processi produttivi colossali, semplicemente il giovane regista romano era andato fuori mercato. A riportarlo sul set sono stati gli indefessi Luca Boni e Marco Ristori con The Blind King.

La prima premessa sul nuovo film di Picchio è che non conserva l’ultraviolenza del precedente, adattandosi maggiormente agli standard dell’horror psicologico contemporaneo. Il parallelismo più immediato è con Babadook. Se i protagonisti del film di Jennifer Kent erano una madre sola e il suo bambino, in questo caso sono un padre solo e la sua bambina. In entrambi, l’infanzia resta il tramite più diretto verso la paura atavica per l’Uomo Nero, mentre il punto di vista adottato è quello dell’adulto. Questa discrepanza fa nascere da subito il sospetto che siano i grandi ad avere qualcosa che non vada. Nel film di Picchio, in particolare, il racconto assume i toni di un mea culpa essendo Craig, il personaggio interpretato da Aaroron Stielstra, un regista costretto a tirare la cinghia. A lui vengono rimproverati, prima ancora che i fallimenti come uomo, gli insuccessi lavorativi e l’avere trascinato nel disastro economico anche gli affetti più cari. Craig è esplicitamente paragonato a Orfeo, l’artista per eccellenza. Il poeta che era in grado di incantare chiunque al suono della propria lira, nell’ottica del pragmatismo odierno, è visto come un egoistico manipolatore. Ma il mito greco è celebre soprattutto per quel viaggio infernale con cui tentò di riportare in vita il proprio amore, Euridice, presentandosi al cospetto di Ade e Persefone. Ne consegue che anche da Craig ci si aspetterà un’azione simile e il Re Cieco del titolo (David White) non potrà che essere il sovrano di una terra priva di luce, dove la vista è l’organo superfluo e dove il buio della coscienza si fonde totalmente col regno dei morti. L’amore smisurato del protagonista verso la figlia (Eleonora Marianelli), resa muta e apatica da un profondo trauma, genera un clima morboso. Quando, poi, cala la notte e il mostro scivola silenziosamente sotto le coperte per accarezzare le gambe della ragazzina, l’idea che la pedofilia sia una possibile interpretazione del male prende decisamente il sopravvento.

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Considerando che le interazioni fra i personaggi sono ridotte al minimo e i dialoghi sono tutti incentrati su Craig, a cominciare da quelli con la sorella (Désirée Giorgetti), The Blind King può essere definito un one-man(horror)show. La scelta è probabilmente dettata anche da limiti di budget che non inficiano, però, sulla dignità del risultato. Il look del mostro ne è una testimonianza. Se partiamo dal presupposto che i nomi dei produttori (Boni e Ristori) e di buona parte del cast (Stielstra, Giorgetti, White, Marianelli) avevano collaborato l’anno precedente alla realizzazione di Apocalisse Zero: Anger of the Dead e Zombie Massacre 2: Reich of the Dead, possiamo azzardarci a riconoscere nel loro lavoro le basi di una factory. E nonostante l’obiettivo di qualsiasi industria sia quello di produrre beni di consumo, The Blind King si spinge oltre il mero sfruttamento del mercato prestandosi a diverse chiavi di lettura e non accontentandosi di una sola visione. Se c’è un appunto da fargli è qualcosa che non lo riguarda isolatamente ma è prassi nelle produzioni horror nostrane, non soltanto dell’ultimo decennio: stiamo parlando dell’ambientazione. Girare un film in inglese è comprensibile dal momento che è una delle lingue più conosciute al mondo, ma volere spacciare l’Italia per gli Stati Uniti è controproducente. La globalizzazione non ha omologato architetture e paesaggi, né tutti gli altri dettagli scenici. Basta un quaderno Pigna a ricordarci che non ci troviamo al di là dell’oceano. In The Blind King la scena con i genitori di Craig è italiana in tutto e per tutto ed è probabilmente la più bella. Se davvero gli spettatori statunitensi sono così gretti da non volere vedere film che escano dai loro confini, non dovremmo essere noi ad assecondarli in questa forma di razzismo. Anteporre un piccolo guadagno a un principio etico crea danni molto più ingenti a lungo andare.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 22/05/2016

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