The Belko Experiment

Le dinamiche sociali odierne rilette in chiave horror, ovvero, come il turbocapitalismo contemporaneo non sia altro che uno slasher su larga scala

Nel 1961, lo psicologo statunitense Stanley Milgram condusse un esperimento socio-antropologico, allo scopo di determinare le reazioni di un gruppo di individui sottoposti alla pressione di un’autorità da essi riconosciuta come legittima, e tuttavia i cui ordini erano in palese contraddizione col sistema di regole, di principi morali e culturali all’interno del quale tali individui si erano formati. L’obiettivo ultimo del test di Milgram era verificare fino a che punto l’uomo comune potesse spingersi nel danneggiare un suo simile per servilismo o conformismo, un’ipotesi di lavoro che avrebbe costituito anche l’orizzonte teorico della tesi di Hannah Arendt sulla “banalità del male”. Non a caso, solo tre mesi prima dell’inizio dell’esperimento si era aperto a Gerusalemme il processo al criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, figura centrale proprio del saggio della Arendt, che verrà poi pubblicato nel 1963. Il test di Milgram diede risultati assai allarmanti, visto che molti dei partecipanti coinvolti non esitarono a “punire” (attraverso la somministrazione di scosse elettriche di intensità progressiva, anche se, in realtà, ovviamente non effettive) i soggetti considerati inadeguati (attori “complici” degli ideatori del test), sulla base delle direttive impartite.

I confini fra il bene e il male sono assai labili, e altrettanto lo è il passaggio da una condizione di empatia a quella opposta di ottusa preclusione nei confronti dell’altro, specie all’interno di un contesto in cui l’apparato normativo imponga o ratifichi la prevaricazione e l’obbedienza cieca. E ben di peggio è presumibile possa accadere là dove a scuotere l’orizzonte morale individuale sia la minaccia alla propria mera sopravvivenza. The Belko Experiment sembra muoversi proprio all’interno di tali coordinate, aggiungendovi considerazioni taglienti sulla condizione della classe impiegatizia di estrazione medio-alta nell’epoca del neoliberismo rampante, ed estremizzandone gli esiti grazie al ricorso agli stilemi propri dello slasher, inseriti in una cornice da distopia fantascientifica.

All’interno del distaccamento in Colombia di una multinazionale americana (la Belko del titolo), gli impiegati, dai più alti gradi gerarchici ai più infimi, sono chiamati a prestarsi a un allucinante esperimento di sopravvivenza: dovranno eliminarsi a vicenda e in numero progressivo, sulla base delle direttive ricevute dalla “voce del padrone”, una voice over che, a intervalli di tempo, si fa udire per arringare i sottoposti, tramite gli innumerevoli microfoni installati nell’edificio. Qualora gli ordini non siano eseguiti alla lettera, verranno fatte detonare le mini cariche esplosive installate, con un pretesto, nella parte posteriore del cranio dei malcapitati colletti bianchi. Nessuna possibilità di fuga per le cavie, visto che, oltretutto, l’ipertecnologico palazzo che li ospita è dislocato in mezzo al nulla della periferia di Bogotá, viene blindato dall’esterno e isolato, oltre a essere controllato da numerose videocamere di sorveglianza; in più, alcuni figuri in divisa e armati fino ai denti montano la guardia all’esterno. Agli sventurati non resterà che farsi fuori a vicenda, oppure attendere la propria morte per mano dei decisori invisibili. Un letale gioco-esperimento, dal quale dovrà emergere un solo vincitore, anche se il vero obiettivo è la dimostrazione – matematica – che il Potere intende dare della propria forza.

Nel dittico Wolf Creek, realizzato in terra d’Australia, Greg McLean aveva dato corpo e figura alle paure ancestrali che dominano i colonizzatori bianchi al cospetto di una terra impenetrabile, in una sorta di aggiornamento semplificato di Picnic ad Hanging Rock, con l’aggiunta decisiva di uno spauracchio in carne ed ossa (l’icastico Mick Taylor interpretato da John Jarratt), e senza quindi l’amplificazione inquietante del fuori campo e il mistero di una terra fuori dal tempo, che contraddistinguevano il capolavoro di Weir. Se il conflitto nei due Wolf Creek era fra natura e cultura, fra barbarie e civiltà, con il predominio incontrastato della wilderness e del suo sinistro custode, TBE si colloca, almeno di primo acchito, sul versante opposto, vale a dire in un’ambientazione in cui non pare esservi più spazio per la natura, e in cui la dicotomia vede su un versante un’umanità sempre più derelitta e prona, mentre sull’altro si installa un Potere anonimo, invasivo, invisibile e iper-tecnologizzato. Tuttavia, in uno strano paradosso, sarà proprio tale dimensione ultra-civilizzata (più che altro, posta oltre qualsivoglia civiltà), con le sue nuove leggi, a condurre i partecipanti al test a una regressione verso una condizione di ferina brutalità primigenia.

Il concatenarsi degli eventi conduce – più o meno consapevolmente, poco importa – TBE a delinearsi come una successione meccanico-matematica delle dinamiche su cui si poggia il capitalismo neoliberale: dall’atomizzazione delle comunità/classi sociali, tramite la competitività interna (darwinismo sociale), si passa alla frantumazione dell’identità individuale e collettiva, cui segue lo sfaldamento dell’orizzonte culturale e morale di riferimento; l’atomizzazione comporta la fine del patto sociale e la lotta di tutti contro tutti (darwinismo biologico); quest’ultima, a sua volta, conduce a un inquietante riavvicinamento a quella condizione primordiale che precede ogni aggregazione sociale. L’uomo perciò, privato di ogni garanzia giuridica, torna a essere predatore, semplicemente per sopravvivere.

TBE – ulteriore tassello con propensioni politiche griffato Blumhouse, dopo i vari capitoli della serie The Purge o titoli come Get Out – si muove al confine fra action, sci-fi distopica e slasher, dissemina di dilemmi morali le decisioni che i vari personaggi dovranno di volta in volta prendere, e soprattutto sfrutta con vigore le soluzioni offerte dall’ambientazione claustrofobica e dalle nuove tecnologie, diaboliche e subdolamente (in)controllabili, orchestrando una partitura estremamente violenta, in un crescendo parossistico di svolte e accelerazioni narrative, con intuizioni linguistiche forse risapute e tuttavia efficaci. I molti ed evidenti debiti nei confronti di molto action-thriller americano, ma anche e soprattutto di Battle Royale di Fukasaku – di cui TBE risulta pressoché un remake (intelligentemente) aggiornato – non inficiano la tenuta complessiva del film di McLean, sia grazie all’efficacia degli interpreti (ottimo il lavoro del regista nella direzione di un cast numeroso e nella gestione dei molti personaggi) sia per la sagace rielaborazione dei temi del film di Fukasaku, probabilmente più circoscritti alla cultura nipponica dello scontro generazionale, del conflitto fra Vecchio e Nuovo: TBE scruta il presente e si proietta nel prossimo futuro, un tempo in cui, probabilmente, l’unico margine di scelta concesso all’uomo riguarderà la lunghezza della catena che ne controlla i movimenti. Del resto, il turbocapitalismo odierno altro non è che un lento massacro senza prigionieri, spacciato come naturale evoluzione della condizione umana: una sorta di slasher su larga scala.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 30/03/2018

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