Taipei Story

di Edward Yang

Tassello fondamentale del Nuovo Cinema Taiwanese, il secondo film di Edward Yang guarda al cinema di Antonioni per portare avanti una dolente riflessione sulla metropoli contemporanea.

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In una delle prime scene di Taipei Story assistiamo a un dialogo tra Qin, la giovane protagonista del film, e l’architetto dello studio per cui lavora, un collega/amico/amante che rappresenterà nel corso della narrazione una delle varie strade tentate dalla donna nella sua ricerca di un’identità sentimentale. I due parlano tra loro davanti alle ampie finestre di un grattacielo, vetrate a specchio che permettono a Edward Yang di porre le loro figure in diretto rapporto con il mondo esterno, Taipei, metropoli e capitale di una Taiwan travolta dal boom economico. Mentre guarda il mutato skyline della città, l’architetto confesserà a Qin di non riuscire più a distinguere tra i tanti palazzi nuovi quelli che sono stati disegnati da lui, ogni edificio appare anonimo, privo d’identità, uguale a tutti gli altri. È una forma particolarmente perversa di alienazione, non più la scissione sottolineata da Marx tra il lavoratore e il prodotto finito, quanto piuttosto l’appiattimento di una propria creazione a stampo industriale, la mercificazione dello sforzo creativo.

Se quello di Yang viene considerato un cinema anzitutto urbano, teso a rappresentare il mutare della condizione umana al variare del proprio contesto metropolitano, il perché risiede soprattutto in due opere, Taipei Story e il successivo The Terrorizers – che non a caso sono anche i titoli che maggiormente manifestano i debiti di Yang nei confronti del cinema di Michelangelo Antonioni. Dal regista ferrarese infatti Yang riprende proprio l’attenzione estrema al rapporto tra il soggetto e il paesaggio, trovando in tale dinamica la chiave d’accesso ideale alla più complessa alienazione che incombe sulla vita contemporanea, specie in quei particolari frangenti sociali nei quali un improvviso balzo economico porta alla ridefinizione dei rapporti e delle identità. Che sia l’Italia degli anni ‘60 o la Taiwan degli ‘80, ogni crescita economica veicola i germi di una crisi esistenziale, in quanto al mutare improvviso della condizione materiale subentra la necessità di una ridefinizione spirituale, interiore, un ricondizionamento che permetta di cercare nuovi punti di riferimento in una società improvvisamente mutata.

Come già sottolineato da Alessandro Gaudiano su queste pagine, la Taipei degli anni ‘80 è forse la metropoli orientale soggetta a maggiori forze contrastanti: da una parte flussi occidentali e giapponesi si mescolano con la cultura tradizione cinese e confuciana (di cui la Repubblica di Cina si considera l’autentica custode), dall’altra una società giovane, prevalentemente frutto di immigrazione forzata, viene investita da un’ondata di ricchezza e benessere industriale, un salto in avanti che si trasforma presto in edonismo e culto per la superficie, il cui contraltare immancabile è sempre l’atomizzazione dell’individuo e l’appiattimento delle categorie di senso. Per questo motivo Taipei Story è un film profondamente urbano ma privo di grandi scene metropolitane; la città è onnipresente, pervasiva, ma Yang la lascia entrare soltanto dalle finestre, schermi-mondo di fronte i quali i personaggi si pongono nei tempi morti che lentamente compongono la narrazione. L’effetto è quello di assistere al moto di pesci in un acquario, singoli individui cristallizzati in una condizione di aridità emozionale, intrappolati in quello iato infernale proprio di chi sente ancora la necessità di un’unione, di una comunicazione, ma è talmente sovrastato dalle mutazioni del proprio contesto da non riuscire a trasformare tale tensione in azione. Anzi il contrario, la crisi si sublima in uno stato di incomunicabilità costante, e il sapore della disperazione si perde nella lotta quotidiana portata avanti sul palco dell’apparenza, del successo, della conquista economica.

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Tratteggiati dal regista assieme al collega Hou Hsiao-hsien – che qui collabora alla sceneggiatura e incarna il secondo protagonista e compagno di Qin, Lon – i protagonisti di Taipei Story sono le manifestazioni evidenti di questo disagio diffuso, ritratti umanissimi e dolenti di una generazione medio-borghese priva di punti fermi, dilaniata dalla forbice generata dalla corsa al successo e dalla tradizione come ultimo rifugio dell’identità. Non a caso Lon, ossessionato dal passato e dal mito americano, appare scisso tra l’affetto nostalgico per una donna che vive a Tokyo e l’amore liquido, inconcludente, per Qin, che non riesce a trasformare in nucleo familiare ma anzi danneggia aiutando economicamente il padre di lei, un gesto dettato dalle sovrastrutture culturali confuciane a cui Lon guarda con disperato senso di sconfitta. La fine di un personaggio del genere non può che essere la morte per dissanguamento, un gesto compiuto da un giovane ribelle infatuato di Qin ma che in realtà è in azione dall’inizio della narrazione. Lon disperde se stesso nelle strade di Taipei, cerca appigli dove non ce ne sono, mentre Qin prova a lasciarsi scivolare di dosso dolori e manie, solitudini e bramosie di successo, indossando quei grossi occhiali a specchio che ne nascondono il volto e coprono il luccichio vuoto degli occhi, ma che di certo non alleviano l’horror vacui che le serra l’anima.

Taipei Story è un racconto di immenso dolore, ma nulla appare urlato, sottolineato, Yang al suo secondo film perfeziona il proprio sguardo trovando una distanza emotiva tra sé e il soggetto, un distacco con il quale raggiunge un obiettivo sorprendente, congelare l’azione per esaltarne l’umanità. Yang del resto è un regista profondamente umanista, attento alle più rarefatte necessità dell’uomo contemporaneo e convinto credente del potere taumaturgico del cinema. Una specificità che si trasforma in un amore profondo per i propri personaggi, protagonisti o comprimari che siano, a ciascuno dei quali regala un momento di pietà, uno sguardo di profonda comprensione. Per questo il ritratto umano non viene mai sovrastato dal linguaggio, non assume mai un ruolo secondario rispetto al potere significante dello stile. Pur essendo un regista certosino e profondamente scrupoloso nella sua messa in scena, Yang non perde mai di vista la dimensione emotiva ed esistenziale dei suoi personaggi, ed è qui che forse il suo cinema trova non solo identità ma lo scarto più evidente rispetto all’opera del modello Antonioni.

Taipei Story non vuole recuperare la sperimentazione visiva de L’eclisse e la sua scomposizione dell’inquadratura, non ha l’ambizione di rigenerare le fratture oniriche di Deserto rosso, o il ritratto del mondo intellettuale portato avanti da La notte e L’avventura; niente di tutto questo trova spazio nel film. Yang piuttosto è interessato ad assimilare e trasformare lo spazio/tempo del cinema antononiano, il citato rapporto spirituale tra i corpi e lo spazio e il modo in cui tale relazione si riflette nel dissolversi della linearità temporale, assenza di una vettorialità narrativa al cui posto trova un ruolo il flusso rizomatico dei tempi morti, che comunque non raggiungono mai la dilatazione che avevano nel cinema di partenza.

Non potendo qui portare avanti un confronto tra i due autori, basterà quindi sottolineare come questi debiti trovino soprattutto spazio nella prima fase del cinema di Yang, che dal successivo A Brighter Summer Day evolverà in un racconto corale di stampo apertamente letterario, il grande romanzo familiare che attraversa verticalmente più generazioni. Nel frattempo il dittico formato da Taipei Story e The Terrorizers svolge un ruolo fondamentale nel cinema di Yang e di Taiwan in generale; basti pensare alla direzione presa successivamente da Tsai Ming-liang, che di tali influssi farà le colonne portanti di un cinema riflessivo via via più libero dalla dimensione strettamente narrativa. Yang, al contrario di Tsai e del modello Antonioni, cresce piuttosto come un grande narratore, un meraviglioso raccoglitore di storie ed emozioni che nascono dallo sconfinato amore e dalla curiosità e sete di vedere, conoscere, sentire, che anima questo grande, umanissimo, regista.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 02/10/2016
Taiwan 1985
Regia: Edward Yang
Durata: 119 minuti

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