Sweet Country

Sweet Country è un western che porta in scena la nascita della nazione australiana ma cade nella tentazione dell'estetismo fine a sé stesso.

Secondo decennio del 1900. Sam è un aborigeno che vive in armonia nella fattoria di Fred (Sam Neill), un uomo bianco timorato di Dio. In Australia, gli aborigeni sono il corrispettivo degli indiani negli Stati Uniti d’America. Vengono maltrattati e schiavizzati, privati dei propri diritti e trattati come stranieri in patria. Tali caratteristiche, tuttavia, non riguardano il rapporto tra Fred e Sam. Fino all’arrivo di Harry March, un ex soldato che viene accolto da Fred e che costringe alla fuga la famiglia di Sam.

Il regista Warwick Thornton, al debutto alla Mostra del Cinema di Venezia con questo Sweet Country, dimostra le proprie origini aborigene nella particolare sensibilità con cui si approccia alla trattazione estetica della vicenda narrata.

L’omicidio di un uomo bianco da parte del nativo Sam diventa il pretesto per un road movie che scandaglia l’anima individuale e collettiva dei caratteri che vi appaiono. La fuga per la salvezza si trasforma in una evidente parabola dedicata alla nascita della nazione australiana, doppelgänger del lungo percorso americano verso la costruzione di una società moderna non priva di zone d’ombra. Il pregiudizio e lo sfruttamento dei bianchi trova la propria oggettivazione in autorità prive di scrupoli che amministrano le città, controcampo alle misteriose distese desertiche dell’Australia del Nord; in questo rapporto Thornton trova il pretesto per applicare uno stile narrativo che rifiuta la tradizionale linearità ed innesta cortocircuiti basati sul contrasto civilization-wilderness. Il mondo degli aborigeni è fatto di premonizioni e ricordi, di spazi sconfinati e di una trattazione cromatica che riproduce la purezza delle sue usanze. In un contesto così distante, scoprire l’altro da sé è quasi impossibile. Soggiogarlo alle proprie istituzioni è un’impresa assai più fattibile per gli uomini bianchi.

L’Australia di Sweet Country appare come uno spazio vuoto in cui ricercare i frammenti della propria identità, tra rocce, burroni e fenditure in cui la memoria risulta priva di qualsiasi punto di riferimento. In questa terra di nessuno, il tempo, come la narrazione d’altronde, si espande e si contrae, restando vittima di un onirismo sganciato dalle logiche tradizionali. É lo stesso paesaggio disabitato a suggerire l’idea di conquista e della presa di dominio da parte del colonizzatore bianco, destinato tuttavia al fallimento nella costruzione di una società moderna. Ciò che attira l’attenzione a livello formale è la freddezza realizzativa di questo prodotto: poche scene trasudano passione e “sporcizia”, ogni inquadratura sembra essere troppo studiata per restituire le sensazioni che vorrebbe provocare. Dilatato e ricco di ambizioni autoriali che ne minano la popolarità di fondo, il film di Thornton trova la sua migliore riuscita nella progressione finale, non a caso il segmento più coinvolgente ed emotivamente ricco dei suoi 112 minuti.

«Questo Paese non ce la farà mai» dice un arreso Sam. Un po’ come i vari personaggi del film, in preda all’incapacità di comprensione degli altri e del tempo/spazio primordiale in cui si muovono. Marionette tra le mani di un regista che calcola troppo ogni loro singolo movimento.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 08/09/2017

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