Sully

Essenziale compendio di morale eastwoodiana dove il miracolo dell'Hudson apre lo scenario all'ultimo duello possibile, quello tra Reale e simulazione.

Se dovessimo trovare un film in grado di sintetizzare, in un compendio davvero essenziale, l’intera morale del cinema eastwoodiano, allora Sully sarebbe sicuramente un ottimo candidato. Perché ci dimostra, una volta di più, come Clint Eastwood sia un regista straordinariamente, intrinsecamente umanista, retto com’è da una fede cieca nei confronti di quei singoli che fanno la differenza.

Siamo nel 2009. L’aereo pilotato da Sully trasporta 150 anime. Pochi minuti dopo il decollo, uno stormo di uccelli danneggia entrambi i motori. Sully, impossibilitato ad arrivare alla pista d’atterraggio più vicina, tenta di atterrare sull’Hudson, finendo col salvare tutti i passeggeri. L’eco mediatica fa subito il suo giro e Sully diviene un autentico eroe americano. Ma la National Transportation Safety Board indaga sull’ammaraggio, avviando un processo al pilota.

Prende piede il duello all’ultimo sangue tra evento e simulazione, tra Reale e simulacro, tra uomo e numero. L’Evento reale ritorna quattro volte nel film, come a tracciare una scrittura dettagliatissima, anatomica dell’ammaraggio. Questi 208 secondi sono l’ossessione di un tempo senza tempo: il tempo dell’istinto e della caduta, il tempo degli occhi fissi spalancati a fissare il fiume, quando si andava verso morte certa.

Si moltiplicano i punti di vista, come a comporre un puzzle di sguardi: dai piloti ai passeggeri, dalle postazioni di controllo agli spettatori increduli. Si moltiplicano anche gli schermi, interfacce di un presente sempre ritornante, bolla di un tempo divenuto virtuale. Continuamente reiterato, emerge l’istante della paura, quando tutti perdono il controllo, tutti eccetto Sully che si mantiene calmo e risoluto. Percepisce l’aereo, la distanza, la velocità, ma soprattutto sente il tempo. Non ha paura di morire perché sa già che questo non succederà: egli crede.

Prima che l’aereo viri verso l’Hudson, esso avanza in caduta libera tra i palazzi di New York, con lo spettro di una catastrofe sempre imminente. Il volo a bassa quota, la paura dell’impatto richiamano inevitabilmente l’undici settembre (che ritorna in sogno, con lo shock dello schianto e il dolore del fuoco), producendo un déjà vu dell’impatto, come già succedeva in 11 Minut di Skolimowski o in Flight di Zemeckis. Eppure l’ombra terroristica del Reale si risolve in un esaltante happy end da cinema classico, quasi come se fossimo in un film di Frank Capra.

Il ciclo infinito di simulazioni, di what if, di protocolli e protesi burocratiche, dichiara guerra al Reale, ricerca l’errore umano (il sentimento) a vantaggio di una perfezione automatica. Le simulazioni mostrano infatti che Sully avrebbe avuto il tempo di tornare alla pista più vicina. Ma lui, che è un uomo, vuole fare sul serio. Le simulazioni mirano a scovare l’errore umano ma dimenticano il fattore umano: nessun’ansia, nessuna paura, ma puro automatismo anaffettivo. Il terreno di gioco allora è chiaro: assistiamo a uno scontro tra macchina e uomo, tra reale e artificiale, tra immagine ed esperienza. Il tempo che manca al computer è quello della reazione. Se si aggiungono 35 secondi alla simulazione – i presunti secondi del fattore umano - la macchina non potrà che replicare all’infinito lo schianto dell’aereo, come un memento mori privo di qualsiasi possibilità di errore.

Il vantaggio dell’uomo sulla macchina, sembra dirci Clint, è la sua possibilità di una decisione improvvisa, di uno slittamento folle che si rivela unica possibilità di salvezza. L’imprudenza dell’uomo supera l’infallibilità della macchina. La soggettività del singolo è più dell’oggettività del sistema, la scelta personale più della Legge. Ecco che il libero arbitrio, la fiducia nell’altro, perfino nella sua possibilità di sbagliare, rivelano l’impossibilità stessa della macchina.

La paura della morte crea un terreno ulteriore, una possibilità altra, incalcolabile da qualsiasi algoritmo, perché umana, troppo umana.

E’ l’arte della variazione, l’esercizio dell’improvvisazione.

L’eroe secondo Clint è l’uomo comune (interpretato, non a caso, da Tom Hanks, l’unica stella hollywoodiana che non ha mai smesso di essere l’individuo della folla, il solo erede possibile di James Stewart), la persona che si fida solo del suo istinto, al di là di qualsiasi carovana mediatica, prima di ogni interesse burocratico o istituzionale. Il vero uomo che, nei 208 secondi più importanti della sua vita, deve agire senza mostrare alcun dubbio e con un tempismo perfetto. Nessun’esitazione, nessun pensiero che non sia la concentrazione massima, autistica, nei confronti di un’idea che, per quanto folle, è l’unica pista possibile. Esattamente come se fossimo all’interno di un duello da Far West in cui, nei secondi interminabili del chi-spara-per-primo, si è chiamati ad avvertire il pericolo e ad agire di conseguenza.

L’eroe è l’uomo che sfida le leggi fisiche, che affronta il vuoto (come in The Walk) credendo ciecamente nella forza del miracolo. Ancora una volta, è un uomo di fede. E nel cinema americano di oggi, dove il virtuale vince il reale, Clint Eastwood continua a credere devotamente nella forza del singolo che traina l’intera squadra, nell’energia di una collettività che vince gli artifici del mondo per salvarsi e ricominciare a vivere: pura, cristallina etica cinematografica di un vecchio cowboy che, imperterrito, non smette di combattere da vero uomo.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 03/12/2016

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