Speciale Ready Player One - Il regista/curatore

Nella veste di regista-curatore, Spielberg recupera i frammenti della memoria personale e della memoria collettiva per adattare il romanzo di Cline.

Ridurre l’adattamento di Ready Player One al mero esercizio (auto)citazionista sarebbe sbagliato. Questo non perché la componente più accattivante del film (ora) e del libro (prima), col suo esagitato susseguirsi di riferimenti pop che in gran parte attingono proprio dall’immaginario spielberghiano, non sia autosufficiente di per se stessa. Del resto l’intrattenimento per l’intrattenimento è una ragione più che sufficiente per fare cinema, e chi più di Steven Spielberg può esserne testimone (diffidate da chi vi dice che il cinema non politicizzato non sia cinema e dimentica che il fare film è di fatto un atto politico a prescindere).

Sarebbe un errore dicevamo perché con il suo stile anti manierista e attraverso un atteggiamento tecnico votato alla chiarezza e alla semplicità narrativa, Spielberg arriva — anche per merito del materiale di partenza — dove molti altri (Aronofsky con Madre! su tutti) non sono riusciti ad arrivare, ovvero a fotografare con delicatezza il rapporto simbiotico-emotivo che si instaura tra l’autore e la sua opera, tra l’autore e il suo fandom, lasciando inoltre aperte diverse possibilità di meta-letture.

Spielberg quindi non riflette solo sul film-gioco come specchio di se stessi, come prolungamento identitario e feticistico con cui giungere all’immortalità dell’anima: con Ready Player One apre degli scenari di riflessione non inediti ma pur sempre contemporanei sull’artista-autore nella sua nuova veste di curatore, selezionatore e — nel suo caso — di regista/minatore.

Una delle figure centrali dell’opera è quella del Curatore, custode di un museo virtuale di ricordi ed evocatore di immagini fondamentali per lo sviluppo narrativo e per la soluzione dell’enigma fondante che muove il romanzo di Cline. Questi è letteralmente il custode dell’anima dell’intero universo, in quanto guardiano di un tempio sacro dove riposa la memoria divina, quella di James Halliday — lo Spielberg regista —, il deceduto sviluppatore e creatore di OASIS, un mondo virtuale in cui il gioco è diventato l’unica dimensione possibile e auspicabile per i protagonisti.

Unico mezzo di estetizzazione di una realtà distopica, polverosa, che ingabbia i corpi in loculi decadenti e fatiscenti, OASIS diventa alla morte di Halliday la piattaforma virtuale in cui proiettare i propri sogni di ricchezza e libertà in una grande caccia al tesoro. Lo sviluppatore ha infatti nascosto un easter egg accessibile solo attraverso tre chiavi disseminate nel mondo virtuale che porteranno lo scopritore a governare OASIS stesso. La soluzione dell’enigma vive proprio nei ricordi dello stesso Halliday e ha a che fare sia con la cultura ludico-cinematografica del passato che con le passioni, i dolori e le idiosincrasie personali. Il ricordo diventa quindi l’unica via d’interpretazione del presente, la sua ri-attualizzazione l’unica possibilità di analisi dei meccanismi che governano la realtà, e la figura del curatore il deus ex machina che ricuce i frammenti, conducendo i giocatori/spettatori alla comprensione lineare delle dinamiche del mondo, reale o finzionale che sia.

Curatore ingrandisce, zooma, ruota, comunica con e viviseziona il ricordo come faceva Deckard nel Blade Runner di Ridley Scott; ma l’universo di Ready Player One porta in seno figurativamente e fisicamente quarant’anni di cinema fantascientifico dello stesso Spielberg (si veda Minority Report) nonché dei vari Cronenberg, Villeneuve e di tutti i registi “tattili”: è un universo che sostituisce il corpo alla voce, l’immagine allo scritto. Curatore con le mani sfiora il ricordo, rende tangibile il fantasmatico, mette in contatto l’empirico e il virtuale, così come il curatore Spielberg sfrutta il digitale per riportare in vita i frammenti dispersi della sue passioni, della sua anima.

In OASIS i protagonisti possono imbattersi nel T-Rex di Jurassic Park e trovarsi a dover scappare da King Kong, fraternizzare col Gigante di Ferro e ballare sulle note di Stayin’ Alive.

In OASIS rivivono gli anni ’80, rivive la cultura pop, rivive lo stesso Spielberg nel corpo mastodontico delle sue creature. Forse non poteva che essere un autore di origini ebraiche (che costruisce un cinema mnestico proprio per il suo rapporto radicale e personale col concetto di memoria) a portare il romanzo di Cline sul grande schermo: il visualizzatore della memoria tecnologica (A.I - Intelligenza Artificiale), della memoria genetica (Schindler’s List), della memoria politica (Lincoln) e di quella biologica (Jurassic Park), che recupera la memoria personale e quella collettiva, due branche che mai come in questo caso coincidono grazie alle possibilità offerte dal digitale.

Nella sequenza in cui i protagonisti rivivono estratti da Shining di Stanley Kubrick non c’è infatti solo un omaggio di un amico a un amico defunto — e che, guarda caso, può rivivere nel videogioco come il creatore di OASIS stesso — ma c’è anche la dimostrazione della capacità del cinema digitale di ri-manipolare le immagini e donargli nuova vita, giungendo così ad una forma cinema che può vivere del cinema stesso in un cortocircuito autoreferenziale.

Ready Player One — film sulla realtà virtuale, ma girato in pellicola — si nutre del dialogo tra passato e futuro, fa della citazione narrazione e struttura, disvela l’enigma dell’immagine per mezzo dell’immagine: “eri tu la Rosabella” dice Wade a Curatore nel finale del film, affidando lo scioglimento dell’enigma ad una citazione proprio da quel Quarto potere in cui Welles indagava le difficoltà di ricomposizione dei ricordi e l’impossibilità della ricostruzione lineare di una vita.

Come a dire: sei tu, Curatore, il punto di arrivo della regia.

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 06/04/2018

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