Speciale Oriente #12 / Yakuza Apocalypse

Il cinema libero e irriverente di Takashi Miike, un pastiche di generi sulla follia del cinema che testimonia ancora una volta la grandezza del regista giapponese.

Cosa aspettarsi da un film di Takashi Miike? Forse, ancora oggi, l’unica risposta possibile è tutto. O meglio, expect the unexpected (rubando il titolo del grande neonoir di Patrick Yau). Yakuza Apocalypse ce lo ricorda nel migliore dei modi: il cinema di Miike è un territorio vulcanico in cui non vi sono norme o confini da dare per scontati. Qui le convenzioni di coerenza narrativa, rispetto per i generi, omogeneità di sguardo, sono tutti criteri relativi, rispettati quando la cornice produttiva lo richiede ma sempre, in un modo o nell’altro, contaminati, sbeffeggiati, se non apertamente irrisi e stravolti. Nonostante i sessant’anni alle spalle, di cui quasi la metà trascorsi su un set, Miike continua a brandire il suo cinema come un arma volta alla pura libertà creativa, apparentemente priva di controllo ma di fatto frutto di un caos segretamente ordinato, profondamente consapevole. Certo, lo sguardo irriverente e anarchico appare a volte eccessivamente studiato, autoreferenziale (come in certi momenti di Yakuza), in altre si avverte il peso della commissione e dei suoi canoni, ma Miike resta sempre un regista capace di vivere il cinema come un gioco serissimo e spiazzante. Il tutto ad un ritmo inarrestabile, grazie al quale l’ammontare della sua filmografia (un centinaio di titoli al momento in cui si scrive) si riveste di un’aura mitica, oltre la quale la sorpresa, lo scarto creativo non diventa mai arida maniera. Questa forse è la sua capacità più grande, la cifra fondamentale che alimenta un cinema riconoscibile nella sua imprevedibile originalità – e che tanto manca a chi come l’ultimo Sion Sono cerca inutilmente di mimarne il passo compulsivo e ultrapop.

Tra i gli ultimi titoli (come sempre, almeno due all’anno) spicca per esiti e forza creativa questo Yakuza Apocalypse, un pastiche di generi in cui nulla va come previsto: la narrazione parte giocando con schemi consolidati e metafore evidenti del potere criminale (il vampirismo), ma i primi vengono regolarmente deflagrati da iniezioni di follia ad alto potenziale, mentre le seconde non sono da prendersi sul serio ma servono soltanto come slancio per un balletto acrobatico tra le atmosfere e gli ingredienti tipici dei generi chiamati a raccolta: al gangster movie si uniscono horror e western, ma è solo l’inizio dato che poi arti marziali e kaij? eiga si impossessano della storia e del tono del film, in un sublime equilibrio di grottesco, autoironia e serissima manipolazione dei generi. Il risultato è un un’apoteosi del gioco cinematografico, vicina a tratti all’eversione anarchica del Miike dei primi anni Duemila. «Stay foolish», recita l’ultima indicazione del maestro e boss Kamiura lasciata all’allievo Kageyama, il memento ideale per un film popolato da yakuza vampiri, sindacalisti del crimine dotati di fucili ultratecnologici, kappa gangster e una rana gigante dentro la quale si nasconde “il più grande terrorista del mondo”. E tutto attorno una giostra impazzita di contagio vampiresco, mentre una storia d’amore cerca la sua strada e un conflitto tra kaij? monta all’orizzonte.

Da anni il cinema di Miike non è più quello che abbiamo conosciuto ormai dieci, quindici anni fa, quel cinema viscerale e altamente disturbante carico di un disagio violento, morboso, profondamente irrisolto. Certo, molto dell’anarchica goliardia di oggi è già presente negli anni di Dead or Alive, Audition o Visitor Q (basti pensare su tutti a The Happiness of the Katakuris), ma se si volesse sottolineare questo scarto è evidente come all’indipendenza del tempo sia seguita una maturità artistica in cui qualcosa è sopraggiunto ed altro è venuto meno. Ma, assodato ciò, non possiamo che fermare qui ogni considerazione generale, ogni idea strutturale sul percorso intrapreso da Miike. Potremmo anche guardare al suo cinema di oggi e individuare alcune direttrici precise – l’adattamento ultrapop di anime e manga di successo (The Mole Song, As the Gods Will, Diamond is Unbreakable) o il lavoro di genere rispettoso dei canoni e proiettato alla distribuzione internazionale (Shield of Straw, Over Your Dead Body) – ma pensare di poter restringere e contenere Miike in queste schematizzazioni è come pretendere di poter interpretare la fisica nucleare di oggi attraverso il vecchio, liceale “modello a panettone” di Thompson. Questo perché il cinema di Miike è piuttosto un complesso sistema di orbitali, un farsi di mondi mossi da leggi fisiche al confine con il caos del moto libero. Possiamo prevedere tratti e momenti del movimento generale, ma il resto è solo questione di infinite possibilità. Ancora una volta, expect the unexpected.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 06/03/2018

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