Southpaw – L’ultima sfida

Attorno alla grande prova di Gyllenhaal, Antoine Fuqua e Kurt Sutter costruiscono un film ultraclassico capace comunque di emozionare e colpire duro.

Ogni film di boxe parte inevitabilmente dal corpo, da tendini, muscoli, sudore e sangue. Tuttavia per capire la natura di Southpaw – L’ultima sfida la cosa migliore è scegliere un particolare preciso, ovvero il tatuaggio che il pugile magnificamente incarnato da Jake Gyllenhaal porta sul pettorale sinistro: “Leila”, il nome della figlia. La stessa cosa infatti vale per il biker Jax Teller, il protagonista della serie Sons of Anarchy, che fin dalla prima stagione sfoggia tatuato sul cuore il nome del figlio “Abel”. Ad accomunare i due personaggi c’è non a caso Kurt Sutter, sceneggiatore di Southpaw e creatore dello show FX che per sette anni, tra alti e bassi, ha raccontato la violenza dell’America trasformando l’Amleto in una banda di motociclisti californiani.

Per qualunque spettatore di Sons of Anarchy il particolare tatuaggio di Billy "The Great" Hope diventa allora un’evidente marca autoriale, cinematografica o seriale che sia, che rimanda direttamente al tema della paternità, già colonna portante di Sons e oggi vero cuore di Southpaw. Tanto Hope quanto Jax Teller sono personaggi in lotta con loro stessi e in cerca di quella maturazione che possa renderli finalmente figure paterne all’altezza dei propri figli, e come nella serie anche qui Sutter immerge le mani nei sentimenti familiari e nel rimpianto, nel tentativo di riscatto e nell’importanza della brotherwood, indagando attraverso la parabola di Billy l’essenza del concetto di forza.

Il risultato è che anche Southpaw si sviluppa come una storia d’amore e di fantasmi, con la presenza in assenza del personaggio di Rachel McAdams che attraversa come uno spettro tutto il film, ma come da tradizione siamo anche dentro una storia di caduta e riscatto che si ricongiunge alla più classica delle letture, quella che vede il ring come il luogo ideale per sconfiggere i propri demoni, definire sé stessi e voltare pagina.

Un po’ Rocky Balboa e un po’ Jake LaMotta, Billy Hope è un toro scatenato che si è sempre nutrito della propria rabbia per conquistare ogni cosa, sul ring incassa quasi senza reagire in attesa di venire posseduto da quella furia che gli permette di vincere ogni volta. Tuttavia la rabbia è un combustile pericoloso a cui attingere, specie quando si tratta di affrontare un lutto e imparare a prendersi cura degli altri prima che di sé stessi

Come nella più classica delle parabole hollywoodiane, è questo l’insegnamento che attende Billy alla fine del suo viaggio dell’eroe, un percorso che prende vita attraverso l’iperrealismo urbano di Antoine Fuqua, cui si deve la potenza espressiva e l’energia muscolare di Southpaw. Cornice hip-hop, estetica in parte mutuata dalle riprese tv di boxe e una vera ossessione per il realismo, Southpaw porta con sé il marchio che contraddistingue da sempre il cinema di genere di Fuqua, la capacità di restituire il reale metropolitano attraverso un gesto che sia comunque grafico, capace di rompere lo schermo e arrivare dritto alla spettatore. Come colpi ben assistiti, le immagini di Southpaw nascono dall’incontro tra un professionismo tecnico non indifferente e una potenza iconica ancorata al dettaglio fisico, al guizzare del corpo e dell’occhio, sulla quale il tris formato da Sutter, Gyllenhaal e Fuqua si confronta a viso aperto con la tradizione.

E’ impossibile infatti pensare un film di riscatto ambientato nel mondo della boxe senza relazionarsi con la tradizione del sottogenere, ormai ampiamente storicizzata e definita. Per questo Southpaw non si vergogna a prendere a piene mani da tutta la saga di Rocky, assimilando al contempo la rabbia del Toro scatenato di Scorsese. Ma è soprattutto l’impianto della parabola successo-caduta-trionfo a seguire pedissequamente la tradizione, una fedeltà da manuale che svela la volontà di non reinventare nulla ma anzi di confrontarsi con il già dato e il già visto. Un film simile quindi è di per sé una sfida, che può dirsi vinta grazie all’incontro proficuo tra l’estetica di Fuqua e la scrittura di Sutter, tra la fame di corpi e dettagli del primo e le emozioni sopra le righe del secondo. Chiaro che Southpaw è eccessivo e carico proprio come il suo protagonista – e a volte la forte drammaticità di certe scene rischia di sfuggire di mano e rovesciarsi in un senso di calcolato cinismo – tuttavia è questo modo che il film ha di affondare nell’emotività dei propri personaggi a permettergli di trovare un suo posto nel genere, senza rivoluzionare niente ma raccontando una storia semplice in modo più che dignitoso.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 28/08/2015

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