Sogni di Gloria.Un film in due episodi

Il collettivo John Snellinberg si cimenta con la commedia per cogliere dietro le atmosfere provinciali gli imprevedibili risvolti dei nuovi malesseri generazionali

Sogni di gloria. Un film in due episodi è l’ultima opera del collettivo di filmaker pratese, John Snellinberg , votato (per necessità) alla produzione di progetti a bassissimo costo e connotato (per scelta programmatica) da una spiccata predilezione per le realizzazioni di genere, tutto sullo sfondo della provincia toscana d’origine. Impostisi all’attenzione di pubblico e critica nel 2009 col lungometraggio di esordio La banda del brasiliano , operazione di rilancio del poliziottesco italiano e con all’attivo sperimentazioni tra loro disparate (un fantahorror apocalittico e un film di Natale per famiglie) il gruppo d’autori punta da ultimo il proprio obiettivo sulla commedia, genere sovranamente abusato sul grande schermo nostrano, sovente più per ragioni di product placement di marchi e personaggi, che per ricalcarne quell’ideale riso amaro, che rese grande la tradizione “All’Italiana” che fu.

John Snellinberg, al contrario, cerca di valorizzare le atmosfere provinciali per cogliere certi imprevedibili risvolti dei nuovi malesseri generazionali, su tutti il diritto al lavoro e la sua crisi, l’integrazione e l’involuzione socio-culturale, non abdicando affatto ad una complessità della stratificazione narrativa, che sfida lo spettatore a scavare intra-testualmente a fondo nel sostanziale gioco metaforico che regge l’intera opera. La rete sottesa dei rimandi pare quasi voler rivendicare il postulato del noto teorico Rick Altaman, per cui i film di genere assolvono in un sistema culturale complesso al compito di permettere agli spettatori di esaminare e risolvere (seppur in modo fittizio) le contraddizioni irrisolte nella società in cui vivono. Il film elide il titolo della celebre canzone del 1949 Addio, sogni di gloria, esplicitamente citata, insinuando con sarcasmo la perdita generalizzata di scontate certezze e beata spensieratezza, eppure è nel rievocare alla mente proprio i versi del cantato (… a testa china anneghiamo nel nostro destino) che meglio si comprendono le vicende dei due protagonisti, gli omonimi Giulio e la loro comune mestizia.

Il film trova nella specularità tra le due storie e nella galleria dei comprimari la propria acuta vitalità; volti e luoghi che si sfiorano gli uni gli altri, ignari dei ruoli e dei discorsi che l’ironia della sorte (a caso?)assegna loro. Prima che due protagonisti, due microcosmi, in cui sacro e profano bene si ingarbugliano, ri- connotando e ribaltando reciprocamente le rispettive determinazioni. Così nel primo episodio, il primo giovane Giulio, afflitto da una sorta di staticità esistenziale, che ha nella condizione di cassaintegrato il suo apice, ma che affonda radici profonde nella superstizione e nella grettezza popolare cui è stato educato, si ritroverà a sovrapporre la fiducia nel sistema di redistribuzione del lavoro alla propria fede religiosa e a considerare in termini utilitaristici e burocratici l’atto estremo di sbattezzarsi. Neppure allontanandosi poi troppo, nel suo smarrimento, dal trasmutare stesso delle cose, se da un lato il suo parroco bada più al calcio (ben più solida fede aggregante ) che al conforto delle anime e dall’altro il suo datore di lavoro trucca i sorteggi di assegnazione degli impieghi, proprio perché i suoi dipendenti non perdano la speranza. La scomparsa delle ideologie, politiche e non, si sintetizza nella rassegnazione di non ritrovarsi più dopo il lavoro a discutere di valori e principi col pretesto di giocare a carte, ma di giocare a carte e parlare di carte. Ecco allora che il secondo episodio si premura paradossalmente di rivendicare ai giochi di carte più diffusi tra i pensionati (briscola, tresette, scopa) la funzione di costituire motivo di investimento e riscatto di tutta una vita, nonché ponte di passaggio e continuità (persino ultraterrena) tra i tempi passati e il futuro che avanza.

Il secondo giovane Giulio è un ragazzo di origini cinesi, che soffocato dalle costrizioni familiari, trova inaspettato sostegno nell’amicizia di un veterano giocatore di carte, col quale formerà un’imbattibile coppia al tavolo da gioco. Ed il gioco sinora condotto infatti si ribalta, le carte sino ad ora scoperte di rimescolano. I padri e i padrini che nel primo episodio erano apparsi una zavorra per i figli, diventano nell’epilogo esempi di dignità e consapevolezza di sé, una esortazione all’audacia di “mettersi in gioco” nella vita. Questo nuovo mentore potrebbe inoltre custodire proprio la chiave interpretativa del film, solo in apparenza squilibrato nel carico sostenuto dalle due parti. “E’necessario fare ordine nel caos!” egli ordina al suo adepto consegnandogli una cantina in subbuglio. È chiaro che la cantina rimessa in ordine da questo Giulio non ha avuto alcun peso nell’economia della singola vicenda, ma in quella complessiva del film si, perché allo spettatore vigile avrà insinuato l’impulso di sbrogliare a ritroso i controsensi e gli eccessi che muovono al riso, non penalizzando affatto il grottesco che ne è l’origine, tutt’altro accentuandone il cortocircuito beffardo.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 24/02/2015

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