Silence

di Martin Scorsese

Scorsese parte dalle coordinate storiche del Seicento ma realizza un'autobiografia spirituale, dando forma al suo travaglio interiore di uomo del Novecento.

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Ci son voluti quasi trent’anni a Martin Scorsese per portare in immagini la voce di Dio, sciogliendo quel conflitto spirituale che da sempre agita il suo cinema. Trent’anni perché ne L’ultima tentazione di Cristo, uscito nel 1988, Scorsese dava voce a figure religiose di carne e spirito, finanche Satana, ma il confine ultimo era sempre quello del verbo divino. Il silenzio restava intoccato, solo Gesù era in grado di avvertire direttamente la presenza paterna, sublimandone la volontà in miracoli e atti di fede.

Oggi con Silence anche quel confine viene infine superato: elevato dal suo calvario fisico e spirituale, il gesuita Padre Rodrigues arriva ad avvertire distintamente la voce di Dio, e noi con lui. Il verbo – che vive nel silenzio e non nonostante esso – diventa anzi la chiave di volta per accedere e condividere la grazia, che per Scorsese consiste in una fede in grado di metabolizzare il dubbio per approdare tramite esso ad una riconciliazione interiore di carne e spirito, domanda e silenzio, presenza e assenza. Quello intrapreso da Rodrigues è quindi un viaggio dialettico nell’interiorità della fede, un calvario che attraverso le tre fasi della conoscenza hegeliana (tesi, antitesi e sintesi) nasce dall’arrogante e ingenua cecità propria di chi vuole esportare il proprio credo, passa per il dubbio e la crisi di tale supponenza e infine giunge al riconciliamento degli opposti, dove Rodrigues/Scorsese è ormai in grado di vedere il silenzio che si fa voce in quanto tale, l’assenza che si riempie di presenza nel suo vuoto. Il finale di Silence in tal senso chiude con coerenza e forza estreme questo viaggio spirituale, l’unione degli opposti che si incontrano nell’interiorità di un crocifisso nascosto in petto.

E’ quest’identificazione tra Rodrigues e Scorsese a trasformare radicalmente l’identità di Silence e a farne un film storico che si disinteressa ampiamente della Storia. E’ inutile aspettarsi che alla minuziosa e sacrale ricostruzione segua un’analisi altrettanto precisa, un’indagine approfondita della vicenda storica. Scorsese evita di restituire la prospettiva giapponese e di storicizzare la figura del missionario, perché quel che più gli interessa è come le contraddizioni messe in essere dalla predicazione si ripercuotono all’interno dell’animo umano. Nascosto sotto le trame del film storico ambientato nel Seicento, Scorsese realizza invece la sua autobiografia spirituale, dando forma al travaglio interiore di un uomo del Novecento. Silence è un film profondamente novecentesco, tanto per il modo in cui affronta il tema del silenzio di Dio quanto per la fede che manifesta nella macchina cinema, il medium re del Novecento in cui Scorsese crede ancora ciecamente, tanto da poter mostrare attraverso le sue immagini non solo il proprio percorso religioso ma il confronto diretto con il Verbo di Dio. Una palingenesi dello sguardo che porta Silence sui binari malickiani di Voyage of Time, altro cinema di madri/padri e di immagini che si confrontano con l’assoluto genitoriale a partire da un processo di riflessione interiore. Per questo motivo il fatto che Silence abbia richiesto quasi venti anni di lavorazione ci appare quasi come un naturale assestarsi nell’ordine delle cose; questo film, così denso di pietà e cognizione del dolore, non può che collocarsi nell’età biografica in cui Scorsese fa i conti con sé stesso e il suo percorso di uomo e cineasta, prete mancato che ha preferito esprimersi con la liturgia del cinema piuttosto che con quella dei rituali evangelizzati.

Pur amando il romanzo di Shūsaku Endō, Scorsese vi entra dentro senza servilismo ma con l’intenzione illuminata di sfruttare le parole di un altro per raccontare la propria storia. Tuttavia questa prospettiva autobiografica non annulla certo la riflessione sul generale ruolo della fede nell’alterare i rapporti che gli uomini hanno con loro stessi e i loro simili. Al contrario, il percorso intrapreso da Padre Rodrigues innesca una disamina non priva di parentesi aspramente critiche, poco lontane dai toni più arrabbiati dello Scorsese degli anni Ottanta. In particolare è la prima parte del film, quella che corrisponde alla citata fase della “tesi” hegeliana, a restituire con soluzioni splendidamente autoriali il dissidio che si trasforma in presunzione, il desiderio bramoso di chi ambisce a rivedere in sé Cristo in quanto portatore di Verità. Rodrigues che guarda sé stesso nell’acqua e vede riflesso il Salvatore è un’immagine emblematica, non solo per la dimensione spirituale del racconto ma per il respiro più europeo e anacronistico – ancora una volta, novecentesco – che evidentemente domina le splendide immagini di questo film. La fede di Scorsese/Rodrigues si lega alla cecità, all’incapacità di vedere le conseguenze ultime della propria arrogata superiorità, ma allo stesso tempo Rodrigues è un personaggio costantemente assetato. Guidato dal suo Giuda – la splendida figura di Kichijiro, sempre diviso tra paura e fede e incapace lui di superarne lo scontro – Rodrigues è sì accecato dalla sua prospettiva religiosa, ma anche assetato di verità, aperto al dubbio, al dolore. Ed è proprio dalla sofferenza che nasce l’”antitesi”, quella fase della conoscenza che ha lo scopo di mettere in discussione quanto in precedenza dato per certo. Più che un prodotto da esportare, la fede inizia qui a diventare un tassello della propria identità interiore, una cifra personale la cui esternazione nel mondo potrà portare tanto comunione quanto sofferenza. Ed è qui, nel venir meno del dialogo e del confronto, che incombe in tutta la sua portata il silenzio di Dio. Di fronte agli orrori della Storia, di fronte all’incapacità dell’uomo di ripristinare la Babele perduta e di comunicare senza violazioni l’uno con l’altro, dove cercare la propria strada? Quale guida resta a Scorsese/Rodrigues oltre a quella voce muta che tarda a riempire la coscienza? Fuori dal suo tempo Silence assolutizza tale questione e ce la restituisce come nodo filosofico ancora irrisolto. Sarà solo nella terza e finale fase del film, nella “sintesi”, che una strada viene tracciata, ma senza più la presunzione degli inizi. Adesso la fede è un fatto privato, che resiste alla tentazione di ascoltare il luciferino amico caduto (Padre Ferreira) e di emulare il sacrificio del più rigoroso fratello (Padre Garrupe); la fede di Rodrigues adesso può sopravvivere all’imposizione totalitaria dell’infernale (ma anche ironico) grande inquisitore Masashige e trovare finalmente in sé la voce di Dio. Un conforto simile e altrettanto catartico a quello ricevuto dal Frank Pierce di Al di là della vita, Cristo redentore ma smarrito che ritorna al ventre materno dopo tre giorni di dubbi e dolore.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 16/01/2017

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