Search Party

Esordio della rete TBS nella quality tv, Search party è un curioso punto di intersezione tra comedy e noir con echi di Girls e Twin Peaks.

Search Party è una serie atipica, trasmessa su un canale quasi privo di una produzione quality per quanto riguarda i prodotti televisivi originali. Forse anche a causa di questa condizione di partenza la TBS si è orientata verso una scelta distributiva anomala, mandando lo show in onda tutti i giorni ed esaurendo la prima stagione nel giro di una settimana, invitando così gli spettatori a una sorta di binge-watching frazionato. Tuttavia, ragionando a posteriori, è la natura stessa della serie ad essere esaltata da questo tipo di fruizione, che sottolinea in maniera puntuale le principali caratteristiche del suo tessuto narrativo.

Search Party infatti possiede un’anima plurale, da un lato dominata dalla componente investigativa che giova non poco della trasmissione ravvicinata dei singoli episodi, dall’altro puntellata da sottotrame di carattere autoconclusivo che vengono valorizzate dallo iato di ventiquattro ore tra un episodio e l’altro. L’intero racconto viene innescato dalla scomparsa a Williamsburg della ventenne Chantal, evento che rappresenta la scintilla per conoscere il contesto urbano intorno a cui ruota la vicenda e in particolare i quattro protagonisti: Elliott, Portia, Drew e soprattutto Dory – interpretata in maniera intensa dall’attrice indie Alia Shawkat – giovane millennial in crisi d’identità dalla quale prendono le mosse le principali linee narrative dello show.

Search Party è dunque la storia di un gruppo di amici inserito in un contesto estremamente caratterizzato, fatto di giovani creativi benestanti e senza particolari ambizioni, tutti dominati da un’attenzione spasmodica nei confronti della propria immagine pubblica e legati da relazioni rispetto alle quali è impossibile scindere i sentimenti reali dagli interessi personali. A esacerbare i conflitti celati sotto una coltre di ipocrisia e a inquadrare con la lente d’ingrandimento la disfuzionalità delle relazioni amicali, sentimentali e familiari del contesto che la serie racconta, è proprio la scomparsa di Chantal. Come per ogni evento traumatico una delle principali conseguenze è quella di scuotere i personaggi principali e disallineare quel muro altrimenti inscalfibile fatto di falsi sorrisi, abbracci venduti come indulgenze e solitudini mai davvero denunciate. In particolare Dory, ovvero il personaggio su cui è maggiormente focalizzato il punto di vista, viene particolarmente colpita dall’accaduto e ha una reazione che parte prima di tutto dall’identificazione con Chantal e quindi dalla domanda che scoperchierà un complesso vaso di pandora: “a qualcuno interesserebbe se la stessa cosa capitasse a me?”.

Non è azzardato annoverare Search Party tra le serie più innovative dell’anno e a ben vedere oggi non sembra neanche un’affermazione così spiazzante. Se nei primi anni Duemila la sperimentazione televisiva ha prodotto soprattutto drama multi-stagionali capaci di raccontare storie con narrazioni multistrand e antieroi dalla spiccata profondità (un esempio su tutti: Mad Men) negli ultimi anni la televisione sta vivendo un radicale cambiamento. Rimandando questo discorso a un’altra sede, non si può non sottolineare quanto negli ultimi anni il mondo delle comedy sia stato protagonista di trasformazioni all’insegna dell’innovazione sia nel modo di narrare che in quello di mettere in scena le storie. È in questo tipo di show che la sperimentazione si sta declinando di volta in volta in forme diverse, dall’ibridazione tra generi (Crazy Ex-Girlfriend) a quella di linguaggi (BoJack Horseman), dalla messa in scena di culture “alternative” (Atlanta) al racconto della diversità sessuale (Transparent).

Search Party si inserisce perfettamente in questo solco e ad esser ancora più precisi va a alimentarne quel suo sottoinsieme intimamente legato alla città di New York che va da Girls (serie capofila da questo punto di vista) a Broad City fino a High Maintenance.

Creata da Sarah-Violet Bliss, Charles Rogers (autori indipendenti già registi e sceneggiatori di Fort Tilden) e Michael Showalter (comedian, attore e autore televisivo e cinematografico), la serie di TBS si distingue per un peculiare modo di raccontare i propri personaggi, lavorando sull’equilibrio di comedy e drama e su quello tra storyline autoconclusive e altre che percorrono l’intero arco stagionale. In linea con il contesto rappresentato non può che essere la sgradevolezza la cifra maggiormente ricorrente nel ritrarre i personaggi, tuttavia gli autori sono capaci di andare gradualmente a fondo nell’analisi di ciascuno dei quattro protagonisti, restituendo nel finale delle figure molto più sfumate e chiaroscurali di quanto non sembrasse nei primi episodi.

Queste considerazioni di carattere generale relative al tono con cui sono raccontati i personaggi sarebbero sostanzialmente irrilevanti se non poggiassero su un’impalcatura narrativa che, a conti fatti, rappresenta il principale aspetto di sperimentazione della serie. La parola chiave è ibridazione e in questa prospettiva un tale accostamento di generi rappresenta un caso più unico che raro nel panorama televisivo. Sia sul versante comedy che su quello drama abbiamo assistito negli ultimi anni a interessanti forme di commistione tra generi, come nel caso di Outlander in cui il melodramma incrocia la fantascienza, o nella già citata commedia musicale Crazy Ex-Girlfriend. Tuttavia si tratta di generi che si integrano senza particolari turbamenti nelle categorie di partenza (drama e comedy), rappresentando una sorta di safe ibridation.

Search Party si spinge oltre, percorrendo territori inesplorati fino a questo momento, fondendo la millennial comedy con il mystery e di conseguenza le rispettive tematiche principali e registri stilistici, che sulla carta risultano molto meno compatibili di quelli degli esempi precedenti. Alle consuete domande dei protagonisti sulla propria esistenza, sul passaggio all’età adulta, sulla ricerca di se stessi e della propria strada per la realizzazione, viene affiancata una detection tutt’altro che accessoria, che si intreccia a doppio filo non solo con le vicende dei protagonisti ma anche con le loro specifiche caratterizzazioni. La serie assume episodio dopo episodio un tono plurale, che immerge l’ironia dolce amara da dark comedy in una torbida e allucinata atmosfera mystery che tanto deve a Twin Peaks, dove nulla è come sembra e dove il grottesco assume una forte potenza metaforica.

La doppia anima del racconto, oltre ad essere un fattore di grande originalità, si rivela anche uno strumento narrativo estremamente funzionale. Search Party infatti riesce a sfruttare al meglio la narrazione orientata garantita dalla detection, propellente drammaturgico volto a condurre il racconto a una velocità insolita.

Da questo punto di vista, l’intersezione tra generi risulta particolarmente funzionale nel lavorare sul personaggio di Dory, la quale proprio nell’investigazione trova quel suo tanto agognato senso, quell’identità rispetto alla quale fino a prima della scomparsa di Chantal probabilmente non si era interrogata più di tanto. I generi sono sotto questo punto di vista camuffamenti continui, sistemi narrativi popolati da maschere pronte ad essere indossate alla bisogna, purché si riesca a sfuggire a se stessi. La Dory detective, dunque, non è nient’altro che l’ennesima messa in scena, l’ultima delle trovate per evitare di guardare la Dory reale; un’incarnazione che però fa i conti con il peso della responsabilità delle proprie azioni, grazie a un percorso che con l’andare avanti della trama noir si fa sempre meno ludico e più tragico.

Intorno al baricentro costituito dalla protagonista si muovono gli altri tre caratteri, a cominciare da Drew, fidanzato che nei primi episodi risulta l’essere più spregevole e pusillanime immaginabile. Con lui gli autori sono puntualissimi nel realizzare un ritratto tutt’altro che manicheo, facendo emergere senza dubbio il suo essere un individuo fragile e con atteggiamenti passivo-aggressivi, ma anche la sua genuina onestà e la responsabilità dalla quale molto più spesso degli altri è guidato. Portia dal canto suo viene inizialmente presentata in maniera molto stereotipata come l’aspirante attrice senza tanto acume, ma a conti fatti finisce per essere sia colei che risolve il caso, sia una donna molto meno semplice di quello che sembrava inizialmente. Un ruolo speciale ovviamente è affidato a Elliott, vera stella della serie grazie all’interpretazione del comedian John Early e personaggio capace di ribaltare il tavolo in qualsiasi momento. Attraverso un’ironia sempre e comunque sopra le righe, questi mette alla berlina le ipocrisie e i vizi della borghesia contemporanea, in particolare per quanto riguarda i giovani tra i venti e i trent’anni, offrendone una descrizione tutt’altro che lusinghiera ma soprattutto evitando di farlo dall’esterno, includendosi in prima persona come la punta di questo disgustoso iceberg.

È Dory però quella che ne esce peggio di tutti, quella che si specchia con il proprio ritratto deformato e fa i conti con la sua inaspettata mostruosità. Esattamente come la trama investigativa, anche quella legata all’auto-scoperta della protagonista arriva a una conclusione chiara solo nel finale, esibendo tutta la catena di alibi e autoassoluzioni che ha contraddistinto il suo percorso, e mettendola di fronte all’ipocrisia con cui a creduto di trovare se stessa in un mascheramento che aveva solo il sapore della procrastinazione. Un continuo giocare col fuoco che termina con un incendio, figlio dell’illusione di continuare a trovarsi nel proprio recinto sicuro salvo poi scoprire di esserne anni luce lontani, quando però è ormai è troppo tardi e c’è un cadavere dietro una porta.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 10/01/2017

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