Scuderie del Quirinale e Villa Medici / Balthus

A quindici anni dalla morte la doppia mostra romana torna a far parlare di Balthus

«Io sono figlio di molti secoli. Non di questo. Non ho niente a che fare con questo secolo. Sono fuori. Sono di un altro mondo»

La vita e l’opera di Balthus, al secolo Balthazar Klossowski de Rola (1908, Parigi – 2001, Rossinière), sembrano trovare una sintesi perfetta in questa sua frase lapidaria: l’immagine consegnata alla storia è quella di un personaggio eccentrico, enigmatico e schivo, e altrettanto potrebbe dirsi della sua arte i cui esiti sono un attentato a qualunque desiderio di collocazione in confortevoli grandi categorie. Balthus è una sorta di marziano della storia dell’arte, ha fatto ostinata resistenza al proprio tempo, prediligendo la distanza e l’isolamento – in questo senso non desta stupore che nel corso della sua vita abbia eletto a dimora castelli e palazzi – ed è rimasto sordo davanti al canto seduttivo delle avanguardie.

Nel 1934 Pierre Loeb organizza la prima mostra personale del giovanissimo pittore presso la sua galleria, la stessa che quasi dieci anni prima aveva ospitato la grande collettiva Exposition Internationale du Surréalisme; Balthus già al suo esordio sulla scena parigina manifesta una totale indipendenza dalla poetica surrealista con una pittura aspra e risolutamente figurativa (definita dallo stesso André Breton in maniera piuttosto riduttiva “realista”), abitata da personaggi bloccati, come dei burattini intirizziti, nelle loro pose ieratiche e immersi in un clima di sospensione che però non ha nulla di rassicurante. La calma è solo apparente, il perturbante si annida nei dettagli, e basta un gesto o uno sguardo a farla saltare: esemplare in questo senso il tardo Les Joueurs de cartes dove l’innocenza del gioco di carte tra due fanciulli viene irrimediabilmente pregiudicata dall’espressione decisamente malvagia sui loro volti. I soggetti sembrano sempre portarsi addosso la propria solitudine e anche nelle scene meno intimiste e più affollate questa coltre invisibile trasforma l’interazione tra i personaggi in un’immagine di incomunicabilità (come accade ne La Rue del 1934 presentata proprio alla galleria di Pierre Loeb). Il ricorso a un linguaggio pittorico tradizionale, le cromie sobrie e la rigorosa scansione geometrica dello spazio non stemperano affatto il senso di inquietudine e, anzi, sembrano paradossalmente esaltarlo. Tale linguaggio germoglia sin dalla fine degli anni Venti grazie alla fascinazione per i primitivi italiani lungamente osservati e studiati, in particolare Piero della Francesca e Masaccio con i quali Balthus istituisce un anacronistico confronto (alimentato dall’influenza di André Derain che sui maestri italiani aveva avviato da tempo numerose riflessioni) decisivo nel caratterizzare l’atteggiamento pittorico e nella maturazione di uno stile personale.

Immagine rimossa.

Uno sguardo d’insieme, come a volo d’uccello, sulla produzione balthusiana rivela immagini potenti e ambigue, disturbanti per erotismo e crudeltà – quella che Antonin Artaud da subito ha saputo riconoscere ed apprezzare nei suoi quadri – ma le occasioni per confrontarsi direttamente con questa forza espressiva sono estremamente rare soprattutto in Italia dove Balthus è tra i grandi assenti nelle collezioni pubbliche. Sono trascorsi quasi quindici anni dall’ultima grande retrospettiva italiana – organizzata a Palazzo Grassi a Venezia sotto l’egida di Jean Clair in occasione della sua scomparsa, un’esposizione straordinaria per numero di opere raccolte e per finezza critica – ed è evidente quale preziosa opportunità sia la duplice mostra attualmente a Roma, visitabile fino al 31 gennaio nelle sedi delle Scuderie del Quirinale e di Villa Medici. Il senso dello sdoppiamento è dovuto al ruolo di direttore dell’Accademia di Francia a Roma che Balthus per undici anni ha ricoperto a partire dal 1961, pertanto nella sede dell’Accademia si trovano le opere realizzate durante il lungo soggiorno romano mentre le Scuderie ospitano la retrospettiva vera e propria: entrambe le esposizioni sono rette da un principio sostanzialmente cronologico articolato in sezioni tematiche dalle quali si cercano di inferire gli aspetti peculiari e ricorrenti nel processo creativo, nei soggetti e nelle atmosfere. Non sempre però l’accostamento tematico risulta efficace, (soprattutto alle Scuderie lascia qualche dubbio, al punto da metterla in discussione, la collocazione dei quadri) e ci si domanda se non abbia contribuito a renderlo un po’ meno fluido la difficile reperibilità delle opere sottolineata dalla stessa curatrice; quantunque le mostre hanno il grande merito di porre l’accento sulle qualità formali, squisitamente materiali e pittoriche del lavoro di Balthus, nel sottolineare fonti e influenze dentro e fuori la pittura (come nei casi dei già citati Derain o Artaud, o in quelli di Lewis Carroll e Alberto Giacometti) e nel presentare inoltre numerosissimi quadri e disegni provenienti da collezioni private altrimenti impossibili da apprezzare per il grande pubblico.

Autore: Daria Cusano
Pubblicato il 30/12/2015

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