Sami Blood

Un coming of age che rievoca il passato (coloniale) per riflettere sulla costruzione dei caratteri identitari collettivi e individuali.

La rappresentazione cinematografica della popolazione Sámi è profondamente cambiata nel corso del secolo scorso, passando da un ritratto etnografico in cui veniva sottolineato il carattere esotico per riprodurre lo stereotipo del “buon selvaggio” ad una sfaccettata e approfondita esplorazione dei processi di formazione culturale e identitaria. Fautrice di questo processo di evoluzione è stata una nuova generazione di registi di origine Sámi, che ha riflettuto sulla natura contraddittoria e conflittuale del processo di costruzione dei caratteri nazionali così come sulla storia coloniale dei paesi scandinavi (della Svezia in particolare), dal momento che la rappresentazione dell’alterità (saminess) è sempre stata estremamente interconnessa alla ri-definizione dei caratteri propri del paese colonizzatore (swedishness).

Sami Blood, opera prima di Amanda Kernell (madre svedese e padre di origine Sámi), presentato nelle Giornate degli Autori a Venezia73 e successivamente proiettato al Sundance Film Festival, sviluppa l’dea di partenza del precedente cortometraggio dell’autrice, Stoerre Vaerie, raccontando una storia di discriminazione razziale nella Svezia degli anni 30.

Ispirandosi all’esperienza della nonna della regista, e di altri componenti della famiglia che hanno rigettato la cultura e le origini Sámi, il film ripercorre, attraverso un lungo flashback, la storia di Elle-Marja che all’età di quattordici anni decide di voler lasciare la comunità, la madre e la sorella, per cambiare vita, cercando di integrarsi nella società svedese che può offrirle un futuro diverso. La regista rifiuta di adottare un approccio didattico-informativo tralasciando alcun tipo di approfondimento sui caratteri identitari della popolazione Sámi, realtà che va oltre il semplice dogmatismo della vita secondo natura e rifiuto della modernità, concentrandosi invece sul processo di assimilazione ai modelli “occidentali” svedesi, finlandesi e norvegesi a cui è andata incontro la comunità almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Uno dei principali processi di repressione culturale attuati dal governo svedese (così come norvegese e finlandese a seconda dei territori di appartenenza), su cui si sofferma prevalentemente il film, è quello di natura linguistica. La protagonista e la sorella Njenna frequentano una scuola/collegio indirizzata esclusivamente a giovani ragazze della comunità Sámi, istituti formatisi all’inizio del diciannovesimo secolo e attivi fino agli anni Sessanta, quando i movimenti identitari portarono a nuove politiche di rispetto della tradizione, promuovendo per esempio una riforma nel sistema educativo. Qui Elle-Marja e Njenna sono costrette a parlare esclusivamente in svedese e a sottoporsi ad esami medici in cui vengono monitorate geometrie e fisionomie, studiate come “animali da circo”. Andando contro il responso medico secondo cui il popolo Sámi avrebbe avuto minori capacità intellettive, non adatte alla vita civilizzata, Elle-Marja, come molte e molti altri faranno proprio negli anni Trenta in un forte clima di discriminazione razziale, decide di liberarsi dei tratti riconoscibili appartenenti alla propria cultura, cambiando nome in Christina, abbandonando gli abiti tradizionali per vestire quelli svedesi, rubati all’insegnante, calandosi in una realtà che inizialmente le era preclusa.

Il film segue le linee guida del coming-of-age, mostrando un percorso di crescita e di esplorazione sia geografica, nel viaggio che la protagonista compie verso Uppsala, dove scoprirà la città, sia sentimentale, nella relazione con un ragazzo svedese di famiglia benestante che porterà anche ad un inevitabile scontro culturale/ambientale.

Amanda Kernell decide di sfidare gli stereotipi che dipingevano la comunità Sámi come un popolo indigeno nomade, composto esclusivamente da allevatori di renne, pescatori e cacciatori che vive in tende isolandosi dal resto del mondo nel profondo nord e rigettando di conseguenza la realtà che li circondava, e lo fa non attraverso l’accuratezza/autenticità di una testimonianza storica che possa rivalutare la superficialità delle precedenti rappresentazioni, dal momento che il film non rifiuta gli stilemi tradizionali e riconoscibili (in apertura e in chiusura specialmente), quanto attraverso una riflessione che allarga e approfondisce il loro significato sottolineandone la complessità. La contrapposizione e dicotomia tra wilderness e civilisation, tradizione e modernità, vita rurale e vita in città, lascia spazio ad una riflessione sulla formazione e costruzione dei caratteri identitari, seguendo il percorso di una protagonista che, nonostante rinneghi il passato, rimane inevitabilmente legata alle proprie radici, le cui tracce lasciano dei segni e dei marchi indelebili, sia mentali che fisici, parte del patrimonio di memorie personali e collettive.

Autore: Samuel Antichi
Pubblicato il 20/12/2017

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