Rompicapo a New York

All’inizio del nuovo secolo Zygmunt Bauman ipotizza l’avvento, a causa delle radicali trasformazioni economiche e sociali, di una società liquida, e per esteso, una vita liquida, malleabile, priva di quei punti di riferimento che avevano accompagnato gli appartenenti alle generazioni precedenti: il lavoro, la famiglia, le relazioni, nulla di certo, consolidato o destinato a mantenersi nella medesima forma a lungo termine. La narrativa degli ultimi anni si è appropriata, nell’ambito della letteratura, del cinema e delle serie tv di questa instabilità esistenziale, e Rompicapo a New York, ultimo episodio della trilogia di Cédric Klapisch sulle avventure cosmopolite di un gruppo di studenti Erasmus dall’università alla vita vera, potrebbe ammantarsi del titolo di manifesto di un’epoca dove l’eternità di concetti quali il vero amore e l’esser genitori sono caduti in frantumi, sgretolati dal desiderio – egoistico o naturale? – di consumare tutto il consumabile, fossero cose, persone, o luoghi.

Nel fortunato L’appartamento spagnolo il giovane Xavier (Roman Duris) incominciava il suo viaggio nel mondo partendo dalla Francia per andare a studiare in Spagna; da lì la sua vita si era estesa in direzioni inimmaginabili, ma ora, alla soglia dei quarant’anni, l’ex ragazzo ormai adulto, divenuto scrittore, ha ricevuto una pesante battuta di arresto. Il suo matrimonio con l’inglese Wendy è finito dopo dieci anni e due figli, e la donna ha deciso di lasciare Parigi e trasferirsi a New York con il nuovo compagno. Per stare vicino ai bambini Xavier si sposta lui stesso nella Grande Mela e ricomincia tutto daccapo, con l’appoggio dell’amica omosessuale Isabelle e la visita inaspettata del suo primo amore, Martine. C’è da cercare un nuovo appartamento, un lavoro, forse perfino una nuova moglie per ottenere il permesso di soggiorno, e tra una cosa e l’altra, perché non aiutare una coppia lesbica ad avere un figlio? Tutto sembra molto complicato, come l’uomo dice a se stesso e al figlio per spiegare separazioni, distanze, anomali fratellastri, ma eppure guardandoci indietro, ora che siamo immersi nella postmodernità e l’indeterminatezza è divenuta la nostra quotidianità, ci vien facile pensare che il cambiamento sociale sia stato solo esteriore, almeno per quanto riguarda la stratificazione dei sentimenti e dei legami che inevitabilmente, a esser osservati dal di fuori, non possono che far apparire le nostre esistenze schizofreniche. C’entra innanzitutto il potersi permettere di incasinare le proprie vite, dando ascolto come mai era stato possibile prima ai propri desideri. Il problema, come teorizzava Bauman, è quando l’esperienza della vita e il consumo quasi bulimico di corpi, emozioni, situazioni vengono a coincidere: abbiamo sempre voluto Tutto, solo che rispetto al passato il mondo di oggi sembra davvero potercelo dare; certo poi è impossibile soddisfare contemporaneamente tutte le nostre esigenze e per questo siamo condannati a essere sempre distratti, eccitati e infelici. I personaggi di Cédric Klapisch, i quali finito o appena assopito un amore si buttano su un altro, un altro matrimonio, un altro figlio, un altro lavoro, un’altra vita, sembrano dei sopravvissuti per il quale un momento di pace costituisce il più desiderabile dei lieti finali odierni, ma l’ironia con il quale il regista racconta questo dramma isterico in cui all’uomo è stato fatto il più crudele degli scherzi, ovvero l’apertura di quel Vaso di Pandora dei desideri che fino ad allora la società aveva contenuto, ci ricorda che alla fine niente come il riso si accompagna meglio a tempi così frenetici.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 09/08/2014

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