Roma 2015 / The Propaganda Game

Il doc di Longoria sulla Corea del Nord non si accontenta di finire vittima felice della regia preimpostata dal regime, ma cerca anche una giustificazione retorica alla propria vacuità.

Ad oggi la Corea del Nord è il paese meno accessibile al mondo, uno Stato il cui principio di isolamento è insito nella propria identità.

Questa scelta assolutista porta com’è noto a conseguenze paradossali rispetto alle relazioni con il resto della comunità internazionale, come ad esempio all’assenza di una connessione Internet e alla sua sostituzione con una propria rete locale, la Kwangmyong. O ancora al divieto per i visitatori stranieri di portare con sé qualunque tipo di testimonianza dall’esterno, cartacea o digitale che sia. Un veto questo che funziona in entrambi i sensi, e genera una circostanza da non sottovalutare: della Corea del Nord non esistono immagini libere, né foto né video, tutto ciò che arriva nella sfera mediatica internazionale è stato preparato, scattato o girato, dal regime della dinastia dei Kim. E’ proprio questo vuoto iconico a determinare il carattere così misterioso e ambiguo del paese, che rimane un buco nero nella mappa immaginifica del mondo.

Che il regime a capo della Corea del Nord presti una particolare attenzione alla propria immagine risulta chiaro da fattori apparentemente collaterali, come ad esempio la cura coreografica con la quale vengono esibite le proprie truppe in parata, membri di uno degli eserciti più grandi al mondo. Ma come si enfatizzano le proprie manifestazioni di forza così si occultano quelle più coercitive, come i diversi campi di concentramento che quasi sicuramente sono presenti nel paese con lo scopo di tenere rinchiusi i numerosi oppositori del regime.

Un potere così ossessionato dal racconto di sé è di certo una sfida non da poco per un cineasta, specie se intenzionato a girare finalmente delle immagini dall’interno del paese. The Propaganda Game nasce così, dal permesso ricevuto dal documentarista Álvaro Longoria di entrare in Corea del Nord videocamera alla mano. Peccato però che il risultato sia totalmente vittima dei meccanismi di auto-rappresentazione del regime, che di fatto dirige il film al posto di Longoria trasportando il regista da una location all’altra, da un set all’altro, imponendo costantemente un filtro tra l’occhio elettronico e la reale situazione del paese.

Grazie all’intermediazione di Alejandro Cao de Benos, l’unico straniero a lavorare per il regime, Longoria riesce ad entrare nel paese per girare un film, un privilegio che si rovescia sotto gli occhi del regista fino a diventare una gabbia.

Tuttavia Longoria sembra assolutamente soddisfatto delle sue immagini, che si limita a montare acriticamente in una placida sottomissione rappresentativa. Unico intervento è l’inserimento periodico di interviste a politologi, storici, giornalisti, esperti dell’argomento cui spetta il compito di suscitare un effetto di campo/controcampo tra quanto visto e quanto testimoniato. Il meccanismo però si esaurisce dopo pochi minuti, considerata anche la dimensione televisiva del tutto e la totale assenza di riflessione o rielaborazione da parte di Longoria.

Paradossalmente l’unico momento in cui avvertiamo un tentativo di comprendere il mondo rappresentato si rovescia piuttosto in una resa, una bandiera bianca alzata talmente in alto da meritare il titolo del film. Secondo Longoria infatti le immagini offertegli dal regime e le interviste raccolte successivamente sono soltanto diverse campane del gioco della propaganda, un intreccio di relativismo assoluto all’interno del quale ognuno dipinge la realtà come più gli aggrada, cinema compreso. Se quindi il suo film risulta essere assolutamente inerte, vuoto, pre-confezionato dal regime e inutilmente infarcito con qualche parere tecnico, la colpa non è di Longoria stesso ma del modo in cui funziona la propaganda. Una conclusione ottusa e inaccettabile (per il modo in cui umilia e depotenzia il potere conoscitivo del cinema) cui si aggiunge l’altro grande danno del film, l’aver intercettato un soggetto favoloso come la storia di Alejandro, rivoluzionario spagnolo divenuto elemento chiave della diplomazia nordcoreana, ed esserlo lasciato sfuggire dalle dita.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 24/10/2015

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