Roma 2015 / The Confessions of Thomas Quick
Il documentario sull'assurda vicenda del primo seriale killer della Svezia spreca una trama eccezionale limitandosi a offrire suggestioni sensazionalistiche
La storia narrata da The Confessions of Thomas Quick è tremenda e geniale: basta solo la trama per far venire voglia di guardare il documentario di Brian Hill, tutto incentrato sulla terribile vicenda di Sture Bergwall, uomo mentalmente instabile che all’inizio degli anni Novanta durante la propria terapia psichiatrica iniziò a confessare di essere l’autore di alcuni fra i più misteriosi casi di omicidio avvenuti in Svezia. Bambini, coppie, ragazzi e ragazze: Bergwall non si faceva remore ad ammettere di averli stuprati e uccisi, a volte sventrandone il corpo, altre arrivando perfino ad assaggiarlo. Le orribili violenze compiute dall’uomo, poi rinominatosi Thomas Quick per offrire un nome più “gradevole” alla stampa, sembravano essere state dimenticate e rimosse nel suo inconscio; finché la terapia nell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverato non era riuscita a fargliele tornare in mente. Il ricordo di gesti tanto disturbanti, più altre reminiscenze infantili decisamente traumatiche – ad esempio, l’istinto cannibale verso le proprie vittime sarebbe stato legato all’orribile sventramento del fratello neonato compiuto dai genitori davanti ai suoi occhi – conduceva certo a una ricostruzione dei fatti talvolta confusa e contraddittoria. Ma questo non impedì ai magistrati, alla polizia e ai dottori svedesi di vedere in Bergwall/Quick il primo vero serial killer del paese, nonché uno strumento efficace per elaborare una teoria valida sulla natura e le motivazioni degli assassini seriali. Nel 2008 accadde però qualcosa che modificò completamente il senso della vicenda di Bergwall/Quick. Non diremo cosa, per non anticipare il finale al lettore. Gli basti sapere che questo nuovo dato trasportò la storia di uno dei più spaventosi serial killer di tutti i tempi in una dimensione del tutto nuova e assurda.
Il soggetto folle, e molto più complesso di quel che sembrerebbe all’inizio, è l’elemento fondamentale del film, perché implica l’esigenza di un gran numero di riflessioni sulla società e su come interpretiamo la verità attraverso le cose in cui crediamo: assodato questo, le modalità con cui The Confessions of Thomas Quick realizza il proprio racconto finiscono però per impoverirne la complessità.
Fin dall’inizio, infatti, Brian Hill propende per uno stile sensazionalista che ricorda gli speciali televisivi di cronaca nera. Ricostruzioni cinematografiche accompagnano le ricostruzioni in loco fatte al tempo da Bergwall/Quick per la polizia; l’insistenza sul carattere morboso degli omicidi, la descrizione dettagliata di ogni violenza, tutto rivela la volontà di scioccare e sconvolgere, prima che spiegare. Ciò che il film fa, pur avendo a disposizione una storia già di per sé eccezionale, è avvalersi del ricatto emotivo di un facile raccapriccio, talvolta talmente esasperato da apparire surreale e far sorridere.
È probabile che molti ravvisino in questa suggestione forzata gli sviluppi futuri che avrà il caso: The Confessions of Thomas Quick esprime una forte volontà di manipolare lo spettatore allo stesso modo in cui al suo interno vengono manipolati i personaggi, ma è un’intenzione da subito concretizzata in maniera semplicistica e disonesta, senza quello spessore mentale che ne avrebbe fatto invece un’opera assai interessante.