Roma 2013 / The Mole Song – Undercover Agent Reiji

Roger Corman d’oriente, Takashi Miike è oggi uno dei più importanti registi del cinema contemporaneo, capace come pochi altri – ad esempio il suo vicino Johnnie To – di muoversi tra autorialità ed esigenze commerciali nella piena consapevolezza della natura industriale della macchina cinema. Tale orizzonte ha permesso al grande regista giapponese di alternare i registri del suo lavoro, passando da produzioni estremamente personali e provocatorie ad altre apertamente alimentari pensate per il grande pubblico (spesso adattamenti di prodotti culturali già mainstream), pienamente indipendenti le prime ma comunque riconoscibili e marchiate le seconde. Perché anche nel film più pre-confezionato possibile il tocco di Miike si fa comunque sentire, che sia un improvviso cambio di registro, una genialità anarchica nelle soluzioni visive o un gioco sotterraneo con temi sessuali e/o violenti. Dei due film portati da Miike la festival di Roma, The Mole Song – Undercover Agent Reiji si colloca dichiaratamente nel polo più commerciale dell’orizzonte miikiano, al quale fa da contrappunto ed ideale completamento il situazionista Blue Planet Brothers nel Fuori Concorso.

Montato a tempo di record per essere presentato nel Concorso mülleriano, The Mole Song è tratto dal manga di Noburu Takahashi, e si affianca a Song’e Napule e The White Storm nel raccontare una storia criminale con protagonisti degli infiltrati. Il personaggio principale è il poliziotto più incompetente di Tokyo, Reiji Kikukawa, incastrato dai suoi superiori e obbligato ad andare sotto copertura. Compito di Reiji sarà infiltrarsi nello Sukiya-kai, il clan yakuza più potente del Kanto, in procinto di intraprendere una guerra spietata con gli eterni rivali del Hachinosu-kai. A fare da aggancio per Reiji sarà Crazy Papillon, leader del clan affiliato Akogi, sulla cui passione per le farfalle farà leva l’agente per farsi accettare nel clan. E da lì killer pelati che miagolano, perdite di verginità, torture, test di fedeltà, portaceneri in vetro nei reggicalze e gambe bioniche. E la canzone della talpa, dai molteplici utilizzi.

I primi quaranta minuti di The Mole Song ci ricordano che nessuno, e davvero nessuno, gira come Takashi Miike. Per trovare un equivalente occidentale dobbiamo cercare di immaginare un Donnie Brasco girato da Edgar Wright sotto acidi, tante sono le trovate visive messe in campo in questa prima parte. Anarchia pura, ma soprattutto capacità di trasformare la bidimensionalità delle vignette nella plasticità di un’immagine orgogliosamente pop (art) senza perdere nulla in stilizzazione e senso dell’assurdo. Tempi comici, soluzioni registiche, interferenze animate, tutto funziona alla grande e diverte, con l’unico grave problema che quelle sparate a raffica in questi primi minuti sono le cartucce migliori del film. Superati i momenti più esilaranti, sequenza dopo sequenza cresce la preoccupazione per un’opera che sembrava essere sul punto di decollare e poi invece si affossa in una parte centrale dalla quale uscirà a stento nel finale. L’eversione, la sorpresa, quel che ci ha fatto amare anche il Miike più commerciale e popolare, stenta qui ad emergere, seppellito dal tentativo fallimentare di “arricchire” l’anima demenziale del film di una trama poliziesca seria e reale, come se il materiale comico non fosse sufficiente a sorreggere da solo la narrazione. A metà del suo minutaggio The Mole Song abbandona i toni della parodia più sfrenata per cercare di sviluppare una storia e un personaggio di cui però non può che fregare niente a nessuno, dovendo una parodia basarsi su elementi il più possibile banali e stereotipati. Così il film di Miike tenta di fare quello che ad oggi riesce solo ad un grandissimo regista come Edgar Wright, ovvero parodiare e allo stesso tempo omaggiare il genere scelto, realizzando tanto uno sberleffo comico quanto un esponente funzionante e assolutamente valido del genere preso in considerazione. E’ per questo che superata la spinta anarchica della prima parte The Mole Song incappa in madornali problemi di ritmo, sequenze su sequenze in cui la verve comica si appiattisce e lo spettatore rimane in attesa di qualcosa che alla fine non arriverà mai. Il finale, che raccoglie comunque diverse scene davvero degne di nota, risolleva in parte gli esiti di un’operazione comunque afflitta da grandi problemi di sceneggiatura.

Di fronte a The Mole Song infatti non si può mettere in discussione la tenuta registica di Miike, che rimane un magistrale costruttore di forme e direttore di visi e corpi indimenticabili; è la scrittura a mancare e a prendere decisioni poco sagge, ma come dimostra anche Blue Planet Brothers il talento di Miike è ancora vivo e vegeto. E poi si ride davvero troppo con The Mole Song per volergli male.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 15/10/2014

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