Roma 2013 / Racconti d’amore

Parte da un territorio familiare il nuovo film di Elisabetta Sgarbi, dal delta padano fino alla città di Ferrara, lì dove si sono consumate alcune tra le più cruenti battaglie tra partigiani e truppe nazifasciste. Un luogo memoriale intimo e collettivo, dove hanno sede i ricordi dell’infanzia e quelli storici della Seconda Guerra Mondiale e dell’esperienza partigiana. Queste due dimensioni dialogano costantemente attraverso i quattro racconti che costituiscono la narrazione di Racconti d’amore, tutti ambientanti in un lembo di terra nebbioso, umido, quasi onirico, forse “impossibile”, teatro di incontri, apparizioni fantasmatiche, desideri segreti, piccoli eventi quasi insignificanti che hanno al centro sempre l’amore, o la sua illusione.

Passiamo dai partigiani dei primi due episodi, traditi da una compaesana o salvati da donne sconosciute, alla Micol dei Finzi Contini fino alla storia di un uomo di oggi innamorato (ma non corrisposto) della più bella donna del paese. Avanti e indietro nel tempo in una visione che è sempre post, raffreddata dall’onnipresente voce over e dal filtro poetico, che mentre evoca le immagini contemporaneamente le tiene lontane, garantendo una distanza di sicurezza. Tutto è già avvenuto, non vi è sorpresa né autentica scoperta, le traiettorie individuali corrono in parallelo senza incontrarsi mai, anche quando condividono lo stesso spazio. Pensiamo ad esempio al primo episodio: i due amanti partigiani parlano sempre di loro al passato, persino nei momenti più intimi. Non vi sono baci, effusioni, accensioni passionali: posano davanti alla macchina da presa come statue improvvisamente rianimate dal ricordo della figlia, ma senza vivere di vita propria. La Micol, figlia dei Finzi Contini, subisce la medesima sorte: emerge dalle nebbie del passato manifestandosi come un corpo residuale che non vuole abbandonare i luoghi dell’infanzia, la casa di famiglia, il cimitero. Vaga senza direzione attraverso lo spazio nell’attesa forse, di trovare finalmente pace. In questo caso il ricordo prende forma come specchio di un desiderio frustrato sul quale non è più possibile intervenire. E’ l’amore a dare forma ai pensieri e alle reminiscenze, a stabilire l’urgenza delle storie, la loro necessità. L’amore di una figlia nei confronti dei propri genitori, quello di un uomo per una ragazza mai conquistata, e poi quello subliminale di un partigiano e di due donne che la Storia ha fatto incontrare anche se solo per poche ore. Il pensiero, che si origina nel presente e nasce dal territorio prima ancora che dai soggetti, non può che generare immagini che recano indelebile il marchio della perdita. L’unica azione possibile è la loro vivificazione attraverso l’affabulazione, l’utilizzo della parola come strumento narrativo, gesto intimo e in qualche modo politico, che rivendica la necessità del ricordo come eredità o bagaglio culturale che definisce se stessi prima ancora degli altri. Perché se non si può cambiare il passato, è possibile almeno preservarlo dall’oblio.

Elisabetta Sgarbi stabilisce dunque il primato della parola sull’immagine: a lei spetta il compito di raccontare i sentimenti. I personaggi però non vivono, dicono solo quello che fanno o provano. E non basta un lavoro accurato di messa in scena o qualche bella inquadratura per toccare le corde dello spettatore: l’emozione rimane soltanto un’ipotesi, uccisa sul nascere dalla metafora, dal tono poetico, dall’impostazione letteraria. Se solo si avesse avuto più fiducia nel cinema…

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 31/10/2014

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