Roma 2013 / La santa

Il nuovo film di Cosimo Alemà, presentato nel Fuori Concorso del Festival romano, racconta di quattro piccoli delinquenti, del loro arrivo in un paese del Sud Italia non meglio identificato e del loro tentativo di rubare la statua di una Santa custodita in una chiesa. Le cose vanno diversamente dai piani e i quattro, costretti a separarsi, si troveranno in balia della rabbia e della violenza repressa degli abitanti del paese.

Alla base di La santa c’è un’idea piuttosto interessante: la statua della Santa descritta come una sorta di totem, l’elemento capace di arginare e tenere a bada gli istinti animali dei paesani, di mantenere l’equilibrio di una comunità astratta. E’ un’intuizione stimolante, raccontare un microcosmo italiano dove la religione è rimasta l’ultimo baluardo in difesa dalle barbarie, una barriera senza la quale gli uomini si trasformano in lupi privi di ragione, qualcosa di non molto lontano dal primo Tobe Hooper o dal Peckinpah di Cane di paglia.

Peccato che tutto questo sia solo uno spunto lasciato sulla carta. Il film di Alemà non riesce a dare concretezza alle potenzialità del soggetto, ci appare di maniera, un accumulo di luoghi comuni senza la capacità della reinvenzione, del lavorare dentro meccanismi collaudati (la struttura è quella di un noir contemporaneo). E sul puro lavoro di messa in scena le cose non migliorano, con una regia incerta che tenta di tenere insieme vari registri (il realismo documentario, il videoclip modaiolo, squarci che si vorrebbero lirici) creando solo confusione. Manca a La santa la capacità di raccontare un luogo, un’atmosfera (fondamentale in un film simile), di portare all’eccesso le proprie intuizioni, di sporcarsi di cattiveria, di inventare all’interno di un canovaccio. Tutto è edulcorato, confezionato mediamente, con dialoghi fasulli, tutto pronto per un passaggio televisivo: Alemà non si risparmia neanche un didascalico flashback finale, costruito come una qualunque soap opera.

In mezzo a questa confusione, narrativa e stilistica, si segnalano le prove recitative di Marianna Di Martino e Renato Marchetti (che riesce nell’impresa di rendere credibile il ruolo del parroco che si sforza di capire le ragioni dei delinquenti). Sono gli unici due attori in grado di dare un minimo di spessore ai loro personaggi, di creare un alone di ambiguità e di mistero (specie nel personaggio interpretato da Marianna Di Martino), gli unici corpi in grado di farci sperare in un qualcosa di diverso, una svolta imprevista che comunque non arriverà. E’ un peccato che il film risulti così irrisolto dato che il Sud Italia ha una forza e una potenza visiva ( anche solo di pura fascinazione) che meriterebbero uno sguardo capace di catturarne i misteri e le zone oscure.

La santa, specie se confrontato con altre opere viste al Festival, ci sembra un triste spaccato del cinema italiano contemporaneo: prima l’indubbia capacità di intuire il potenziale filmico delle storie, dei luoghi e dei simboli; poi le grandi difficoltà nello strutturare un discorso cinematografico coerente (o anche massimamente incoerente, che pure sarebbe interessante) autocondannandosi a una medietà, a una via di mezza che è la cosa peggiore possa capitare oggi. In tempi eccessivi come i nostri, caotici, frammentari, sfuggenti, anche il perseguire una personale idea di “brutto” potrebbe diventare affascinante, interessante, aprire scorci di senso anche oltre le volontà dell’autore. La santa si trova nel limbo del nulla, dei film incerti, vaghi, che si vedono e si dimenticano subito. Un’occasione purtroppo sprecata.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 15/10/2014

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