Roma 2013 / Capo e croce – Le ragioni dei pastori

Due anni di riprese, uno di montaggio, immagini selezionate fra trecentonovanta ore di materiale. Si legge così sul pressbook di Capo e croce – Le ragioni dei pastori e, d’altronde, non poteva essere altrimenti: il film di Marco Antonio Pani e Paolo Carboni restituisce fin dai primi minuti l’idea di un’esperienza vissuta e di un legame profondo sviluppato fra registi e pastori. Ne scaturisce un’indagine sui modi di concepire la vita pastorizia e su quelle relazioni umane in grado di rapire il cuore dei due registi e – di conseguenza – quello dello spettatore. Basta assistere all’amore, alla dedizione, all’affetto con cui sono seguiti i protagonisti: li vediamo mangiare, scherzare, protestare e dormire, in una parola li vediamo vivere. Allora ci si rende conto che stiamo assistendo più che a un documentario di denuncia sullo stato attuale della pastorizia sarda a un documento prezioso, affascinato dall’innocenza e dalla purezza di un mondo che rischia di andare colpevolmente perduto.

Il film racconta la protesta del Movimento dei Pastori Sardi allo scopo di ottenere il giusto prezzo e la dignità per quello che è il loro primo, principale prodotto: il latte. La fascinazione di quest’opera, tanto umile quanto toccante, risiede tutta nell’osservazione della quotidianità dei pastori e del loro legame inenarrabile con la terra.

Capo e croce alterna sapientemente linguaggi eterogenei: si passa dalla bassa definizione durante le riprese delle manifestazioni a quella alta dei momenti più intimi. Il bianco e nero digitale non pare nemmeno in un momento posticcio ma, anzi, è in grado di regalarci un’immagine che sembra quasi impressa su celluloide. Al di fuori di tutto questo si percepisce un’Italietta dimentica delle proprie radici e sempre più industrializzata. Quando a delle manifestazioni pacifiche si risponde con la repressione cieca, la risposta più umana e straziante rimane quella di uno dei pastori, che con tutta l’innocenza del mondo commenta: “Io non ho la legge tribale, ho la legge umana. Un uomo nasce uomo, non carabiniere”. E nella rabbia che scaturisce dal dolore e dall’impotenza, questi uomini non si danno mai per vinti ma, tenaci e perseveranti, continuano a manifestare per i loro diritti, accendendosi, infuriandosi, sdegnandosi intorno a un tavolo o in piazza.

Cinema politico e umanissimo che mostra come ancora una volta il presunto documentario (classificazione impropria e ormai completamente surclassata) sia in Italia la vera casa del cinema, che ritorna a splendere in tutto il suo ardore evocativo. Proprio in questi film piccoli si profila un immaginario diverso, avvinto a conoscere un’alterità dimenticata, lontana sia dal folclore sia dalla retorica della scomparsa. Ma, ancora di più, Capo e croce appare come un’opera interessata al passare delle stagioni e al manifestarsi della natura: cinema di nuvole e nebbia, dove un cielo ha la stessa pregnanza, la stessa antichità di un volto segnato dal tempo, dalla fatica e dalla nostalgia. Qui girare, filmare significa documentare come l’industrializzazione stia distruggendo il mondo pastorale (e non solo): non un film-saggio ma un’opera-cuore che racconta come la logica capitalistica non sia lungimirante ma sia destinata a divorarsi da sola. In mezzo a quella crisi apparentemente senza via d’uscita il ritorno al mondo pastorale potrebbe essere la sola possibilità per tornare a respirare.

Silenzi, greggi di pecore e stormi di uccelli, si ara e si semina nell’auspicio che tutti i discorsi vani – le parole dei politici, le futilità burocratiche, le norme del sistema – possano eclissarsi per tornare finalmente alla terra. “Bisogna far rinascere un sindacato dal popolo, dai pastori, rifare tutto”: ecco l’auspicio, il sogno di far muovere il mondo in una direzione diversa, salvifica ma in totale controtendenza rispetto alla realtà contemporanea. Quella che rimane è una chimera che si vorrebbe immaginare ferma nel tempo, ma che si è già in parte dissolta. Eppure i pastori, nonostante tutto, rimangono gli unici ad avere ancora il coraggio di parlare di utopia.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 31/10/2014

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