Roma 2013 / Blue Planet Brothers

The Mole Song, il film di Takashi Miike in Concorso al festival di Roma, pareva normalizzare la follia miikiana, arginando il fattore imprevedibilità e facendo seriamente sospettare che il prolifico regista nipponico fosse ormai caduto in una sorta di manierismo sui generis. Come spesso accade è invece il film piccolo, Fuori Concorso, dalla durata di soli sessanta minuti, a rispolverare tutta la schizofrenia eversiva dell’autore: Blue Planet Brothers è una folle e divertita operazione pro-fumo che rifiuta, fin dall’inizio, ogni possibilità di essere incasellata all’interno di un genere o di un’etichetta. Il film è composto di dieci episodi che ruotano intorno all’amore per le sigarette, perché “anche le sigarette hanno qualcosa di buono se fumate in maniera civile” afferma Miike divertito nel corso di un incontro.

I protagonisti di questi sketches sono tre creature fuori tempo-massimo: un extraterrestre, principe della costellazione del cigno, un samurai del dominio di Kaga e una fata (o una mosca? O un afide?) che diventerà angelo. Si potrà ben comprendere l’eccentricità di un progetto che è uno splendido divertissement situazionista e che fa del non-sense il suo geniale manifesto. Lavorando in questa direzione Miike immagina costellazioni filmiche diverse: i vari episodi diventano l’indice sommario di modi di raccontare, di generi cinematografici che seguono un’unica legge, quella dell’assurdo. Una sorta di Coffee and Cigarettes nipponico in versione più tossica e anarchica, che non solo scimmiotta immaginari codificati ma prende in giro perfino se stesso, in una follia iconoclasta per giunta autoriflessa. L’eccentricità è data prima di tutto dall’interazione di questi corpi (mal) travestiti con lo spazio in cui si trovano: proprio per questo la messa in scena è straordinariamente semplice nel suo succedere inquadrature fisse, totali e primi piani, interni ed esterni. D’altronde Blue Planet Brothers s’identifica con il cinema del girare a vuoto, della digressione che si muove dalla singola parte e arriva ad invadere il tutto.

Ognuno dei dieci capitoli è introdotto da una doppia voce in francese e in giapponese che ne recita il titolo: parodie nouvelle vague e di un cinema d’autore perfettamente omaggiato-dissacrato, con tanto di fisarmonica alla Midnight in Paris a calarci in un parco della città. Discorsi che si perdono tra mille parole, tempistiche figlie di un altro cinema, elogi sconsiderati sul potere delle sigarette, oppure lunghi e imbarazzanti silenzi. In Rincontrarsi, terzo episodio, si arriva a scimmiottare il noir con precisione filologica: musica jazz, locale con luci soffuse, voce off come flusso di pensieri in disordine e pura detour. I personaggi, bloccati in fermo-immagini che ne rivelano l’identità, diventano il Samurai, l’Alieno e la Fata per Adulti, tutti presi a fingersi più cool mentre sono immersi nelle atmosfere fumose di un intero immaginario. Più si va avanti, dunque, più si entra nel folle gioco miikiano: tra siparietti da teatro dell’assurdo (la sequenza sulle poltrone idromassaggio) e retrovie romantiche di sguardi persi nel cielo (“Mentre si fuma da soli ci si può ritrovare”) l’operazione deraglia all’interno del Pub Paradise dove i protagonisti simulano una partita a ping pong senza la pallina, con buona pace di Blow-Up.

Film-contenitore di tante situazioni, una sorta di fai di te interattivo dove poter combinare codici lontani: si può andare verso derive da action-movie oppure – perché no? – concludere con tre moschettieri che combattono le ingiustizie del mondo. In un episodio si dice “Va bene essere sexy ma non bisogna esagerare” e a noi fa piacere vedere come Miike Takashi invece continui a non seguire il monito, ma esageri, sempre e comunque, fregandosene di qualsiasi idea di buonsenso o responsabilità, identificando il cinema con il gioco, con lo scherzo, con un atto sovversivo ed irriverente. E se il film è una bugia allora non si può che mentire, immergendoci a pieno nello spaesamento di un cineasta onnivoro come pochi per cui filmare significa, sempre e comunque, (già) vivere.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 15/10/2014

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