Roma 2012 / Spose celestiali dei Mari di pianura

Due anni dopo il bel Silent Souls (presentato al festival di Venezia 2010) il russo Aleksey Fedorchenko torna al cinema con Spose celestiali dei Mari di pianura, presentato in concorso, opera che si pone nel solco della precedente come secondo capitolo di un ciclo dedicato alle etnie in via di sparizione della Russia orientale.

L’approccio al contempo antropologico e aneddotico dell’autore si ritrova qui affermato con ancora maggiore evidenza attraverso l’utilizzo di una struttura aperta, ricalcata sul modello pasoliniano del Decameron, e grazie ad uno sguardo che, senza giudicare né tenersi a distanza, metta in scena tante piccole storie accompagnando le vicende dei personaggi con affetto e partecipazione.

L’incipit mette subito a fuoco il tema dominante dell’opera: una ragazza con il viso pieno di nei prepara amorevolmente una sorta di piccolo banchetto da offrire alla divinità locale per ottenere in cambio un aspetto più grazioso. Il sesso, vera e propria ossessione dei personaggi, è presentato di volta in volta come minaccia, sogno irraggiungibile, atto liberatorio, colpa, peccato, rito d’iniziazione alla vita adulta. Come nella Trilogia della vita di Pasolini il piacere della carne va di pari passo con la paura e la presenza incombente della morte, che in alcuni casi addirittura torna ad ossessionare i vivi, oppure sopraggiunge pochi fotogrammi dopo l’avvento dell’amore o il coronamento di un matrimonio. Al contrario di Pasolini però, Fedorchenko non solo frantuma ancora di più la narrazione (gli episodi di cui si compone il film sono addirittura 23), dimostrando così facendo che a contare sono più che le singole storie (alcune talmente brevi da sembrare delle freddure) la visione d’insieme che le stesse offrono, ma anche nell’intento antropologico insisto nell’operazione. Per Fedorchenko la messa in scena di storie, aneddoti, riti del popolo Mari può avvenire solo attraverso la totale adesione al loro universo filosofico e religioso.

Una visione dal di dentro che solo all’inizio lascia perplessi: l’eccessiva frammentazione della narrazione produce un effetto respingente che allontana gli spettatori dal film. Procedendo le cose cambiano nel momento in cui il ritmo cresce contemporaneamente con la progressiva brevità dei frammenti. Così un passo per volta, un racconto per volta, impariamo a conoscere gli uomini e le donne di questo popolo ridendo e piangendo delle loro avventure e – sovente – delle loro disgrazie. Come recita la sinossi, un film alfabeto che si nutre e trova la propria forza nelle storie che racconta, autoalimentandosi minuto dopo minuto. Nonostante molti elementi lascino perplessi non si può negare né apprezzare l’importanza di tale opera, che ricordiamolo, nasce soprattutto dal desiderio di preservare il ricordo di un popolo in via di estinzione.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 22/01/2015

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