Roma 2012 / Il leone di Orvieto

Nel gioco dei dadi al Casinò, come per la roulette e molte altre soluzioni d’azzardo, il principio del gioco è molto semplice: se si punta sul risultato giusto si vince tutto, altrimenti tutto il credito accumulato svanirà. Gloria od oblio, tutto o niente. Il leone di Orvieto racconta la storia di Giancarlo Parretti, un uomo che fra gli anni ’60 e i ’90 ha giocato d’azzardo infinite volte, vincendo altrettanto spesso, per poi ricevere il ben servito perché il banco trionfa sempre. Parretti in quarant’anni di carriera è passato da lavapiatti in un ristorante di Orvieto, sua città natale, a proprietario della MGM, colosso hollywoodiano di produzione cinematografica.

Il documentario, realizzato da Aureliano Amadei e prodotto dalla Suttvuess, ripercorre le gesta di Parretti, con una sapienza fra l’educativo e l’analitico propria della migliore tradizione Suttvuess, sciorinando con dovizia di particolari una storia troppo nascosta e al contempo assai emblematica dell’Italia contemporanea, quella dei furbetti e dei loschi individui, che fra frequentazioni inopportune, amicizie potenti e qualche operazione non del tutto legale è riuscita a costruirsi un impero. Siamo nell’Italia degli anni ’80, quando il neocapitalismo reaganiano e thatcheriano era agli albori, mostrando davanti a sé un universo infinito di possibilità speculative, di modesti investimenti per introiti decuplicati, ma soprattutto delineando un campo finanziario del tutto nuovo e molto simile al far west: grandi margini e poche regole. Quella era l’Italia del boom finanziario di Piazza Affari, coordinate spazio-temporali che hanno fatto la fortuna di Giancarlo Parretti come di Silvio Berlusconi. Dove la scalata ad un colosso o a una corporation poteva nascere per scommessa, anche senza liquidità per l’acquisto, sicuri che fra scatole cinesi, gioco in borsa e società fittizie tutto poteva essere sistemato e portato a termine, complice anche un diritto non ancora in grado di tenere a freno i nuovi metodi economici che hanno animato quella grande bolla di sapone che è stata la speculazione finanziaria degli anni ’80.

Ma, lo si diceva, Giancarlo Parretti quel tempo l’ha trascorso sulla cresta dell’onda, intercettando le giuste amicizie, i giusti affari e gli ancora inesperti creditori esteri, miscela socioeconomica che gli ha permesso in principio di comprarsi il ristorante orvietano nel quale era entrato come lavapiatti, comprare un’altra manciata di ristoranti, buttarsi nell’editoria siciliana e spagnola, acquistare la più grande catena di cinema francese (la Pathé) e da lì scalare la MGM per burla, per il gusto di vincere in maniera insperata una scommessa fatta a cena con Agnelli e Kissinger. Il tutto Parretti l’ha realizzato – neanche a dirlo – in maniera torbida, grazie a tante amicizie nei palazzi del potere di mezzo mondo, soprattutto socialiste, e con questi metodi oscuri è finito in galera diverse volte. Ma sempre per poco tempo, fattore che gli ha permesso di continuare le sue numerose scalate.

Aureliano Amadei firma un documentario rigoroso, robusto, ben strutturato e studiato, che grazie a questo sforzo analitico riesce a intavolare con relativa semplicità le intricate maglie che hanno fatto la storia di Parretti. Ma quello che rimane è soprattutto la potenza che le vicende di Parretti significano. L’esito spettatoriale è straniante e sembra di aver assistito più che ad un film a una radiografia nazionale dell’ultimo trentennio, in cui i peggiori incubi non si sono realizzati filmicamente ma socialmente. Se infatti a Parretti è stata preclusa l’immortalità e l’epica storica giacché ha miseramente fallito il suo ultimo e più pretenzioso piano (la scalata alla MGM e il suo successivo crack significano per Parretti la conclusione delle sue attività, perlomeno quelle più rampanti) allo spettatore non possono sfuggire le simmetrie che allacciano Parretti con Berlusconi. I parallelismi sono tanto numerosi quanto inquietanti: come Berlusconi anche Parretti ha prestato servizio sulle navi da crociera, è stato presidente dell’AC Milan (poi ceduta allo stesso Berlusconi), ha posseduto media e catene di multisala. Ha avuto rapporti con personaggi loschi, è cresciuto fra le fila del socialismo craxiano e soprattutto nessuno ha saputo spiegare con precisione come è riuscito ad accumulare il proprio tesoro. E quindi più che a un documentario, con Il leone di Orvieto sembra di assistere ad un forzato e posticcio happy ending: Parretti in galera e poi esiliato dall’Italia che conta. Ma la vita – qui nel mondo “reale”, in questo sinistro cortocircuito fra realtà e finzione – ha riservato a noi risvolti più crudeli. Parretti, figlio di un’imprenditoria dialettale e sgrammaticata che non si è saputa rinnovare, è stato soppiantato da chi quel giro di boa l’ha saputo compiere. Parretti nonostante le sue amicizie politiche nei palazzi del potere, in quelli istituzionali non c’è mai entrato. Qualcun altro sì.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 22/01/2015