Preacher

L'AMC tenta l'impresa impossibile e decide di adattare il capolavoro comics della Vertigo. Il risultato convince e lascia aperta la porta ad un'auspicabile maturazione.

Non esiste nulla di simile. È in parte western, in parte noir e in parte solo fottutamente strano. – Preacher è come osservare un alligatore mangiare un maiale: disgustoso, ma anche abbastanza mesmerizzante. Ma è anche spaventoso come un ratto psicopatico ben unto con un cappello da minatore ed una torcia elettrica che si avventa sul vostro culo nudo”.

Parole e musica di Joe Lansdale: scrittore, sceneggiatore, inventore di tecniche marziali, maestro di vita e texano doc. Chi meglio di lui, d’altronde, potrebbe introdurre questa autentica odissea mistica e pulp, ambientata nelle terre che tanto ama e che ha celebrato in tutti i suoi romanzi? Lansdale, ovviamente, non si riferiva alla serie ma al fumetto, tuttavia la trasposizione su piccolo schermo, pur non essendo allo stesso livello della fonte cartacea, è fatta dannatamente bene, diverte un mondo ed è pazza al punto giusto.

Dopo il fiasco di Constantine, trasposizione pessima e, soprattutto, non rispettosa della matrice al contempo intellettuale, onirica, noir e pulp del fumetto di origine (Hellblazer), era molto concreto il rischio che un’altra grande saga della gloriosa DC Comic/Vertigo venisse mortificata nel passaggio su piccolo schermo.

Con Preacher i pericoli erano ancora maggiori, dal momento che al pessimismo esistenziale, all’humour nero, alla violenza estrema, ai temi adulti e al linguaggio sboccato – caratteristiche che accomunano i due strepitosi fumetti – si accompagna anche un tono di totale dissacrazione dei moralismi e delle convenzioni religiose, oltre ad un’impietosa messa a nudo dei valori reazionari, bigotti, violenti e intransigenti della società americana. Il tutto poi unito ad una profonda capacità di cogliere i temi caldi della cultura pop contemporanea (si pensi al personaggio di Faccia-di-Culo, teenager al contempo emulo e vittima del mito di Kurt Cobain) e di ironizzarci sopra con impietosa causticità.

Una premessa è d’obbligo: una serie televisiva, così come un film, debbono essere giudicati per quello che esprimono; tuttavia, se si decide di non inventarsi una storia ma prenderla in prestito da un altro, è inevitabile che il giudizio finale tenga anche conto del confronto con l’originale. Se poi l’opera di ispirazione è un fumetto di genere assai controverso, assolutamente destabilizzante e pressoché sconosciuto ai non appassionati di comics, ecco che allora due parole su quest’ultimo si rendono assolutamente necessarie.

Il fumetto a cui Preacher si ispira è stato creato a metà degli anni ’90 (insieme al disegnatore, recentemente scomparso, Steve Dillon) da Garth Ennis, uno degli autori più dissacranti, scomodi e pluripremiati dell’industria dei comics. Nato in Irlanda del Nord, Ennis aveva due anni il giorno della tristemente celebre Bloody Sunday ed è cresciuto in una terra violenta, in cui attentati, scontri fratricidi, omicidi e stragi erano non solo all’ordine del giorno, ma in qualche modo legittimati dalla fede e dalla politica. Sarà forse per questo che la sua visione della religione somiglia più a qualcosa su cui infierire piuttosto che un sistema di valori a cui guardare con speranza e devozione; la fede, nei testi di Ennis, esce con le ossa spezzate e viene descritta come un guazzabuglio di precetti, regole e dogmi spesso assurdi e assai frequentemente finalizzati al controllo e alla manipolazione delle menti più deboli. La sua avversione, almeno sulla carta, per ogni forma di “autorità superiore” lo ha condotto alle estreme conseguenze, portandolo a mettere in discussione persino il ruolo e l’essenza stessa dei supereroi con il dissacrante The Boys, che gli ha creato non pochi problemi con la DC Comic (e che lo costrinse ad emigrare, più o meno spontaneamente, alla Dynamite).

Queste premesse sono fondamentali per comprendere le potenzialità deflagranti che sorgono quando uno come Ennis decide di cimentarsi con un’opera il cui protagonista principale è un prete posseduto, con un’amante pazza, un amico vampiro e una sana inclinazione per l’autodistruzione e l’ultraviolenza. Il materiale di base era così incandescente che la stessa HBO ha rinunciato alla trasposizione, preoccupata che le esplodesse tra le mani.

Preacher, il comic, racconta le avventure di Jesse Custer: un disperato predicatore texano dal passato turbolento e dedito ad ogni vizio, che, durante una cerimonia, viene posseduto da una creatura generata dall’accoppiamento proibito di un demone e un angelo. La cosa è talmente grossa e pericolosa che Dio stesso decide che è meglio cambiare aria per un po’, abbandonare il paradiso (lasciando aldilà e aldiquà piuttosto nel caos) e scatenare un santo assassino per sistemare la faccenda. Aggiungete il Texas, donne fatali, creature non morte, sbirri dal grilletto facile e arcangeli guerrieri e otterrete un effetto davvero esplosivo. Tutto questo è presente anche nella serie, che riesce non solo ad essere abbastanza fedele al testo di base (se non proprio nella trama, quantomeno nello spirito), ma anche ad essere profondamente interessante da un punto di vista visivo, tecnico e narrativo.

Dominic Cooper ha la faccia giusta per interpretare Jesse e, nonostante non sia certo il miglior attore sulla piazza, riesce ad averne anche il carisma. Nel cast brillano soprattutto le due spalle Joseph Gilgun e Ruth Negga che interpretano Cassidy e Tulip riuscendo nel non facile compito di essere al livello dei corrispondenti personaggi cartacei. Tuttavia il definitivo successo dell’operazione, nelle prossime stagioni, dipenderà molto dal lavoro di scrittura e dalla capacità degli autori di non scendere a troppi compromessi e di non ammorbidire eccessivamente le spigolature del fumetto (l’errore che invece, come dicevamo, è stato commesso in modo imperdonabile con il personaggio di Constantine). Per ora il il risultato è estremamente pulp: una serie coloratissima e nera, sufficientemente disturbante ma non respingente; è sboccata, sgarbata e volgare pur trattando di temi alti e importanti come la fede, la politica, il vuoto esistenziale e la ricerca di un proprio ruolo nel mondo. Gli autori (Evan Goldberg, Seth Rogen e Sam Catlin) hanno avuto il coraggio di non limitarsi ad una semplice trasposizione letterale ma si sono impossessati della materia modificandola, reinterpretandola e adattandola alle nuove esigenze e sensibilità degli odierni spettatori. Si è evitato così al contempo sia il tradimento che l’operazione nostalgia, realizzando un prodotto assolutamente contemporaneo – anche se non proprio all’avanguardia – in cui il mood e le atmosfere dell’opera cartacea sono pienamente rispettate, pur mancando per il momento lo stesso effetto di “shock culturale” che fu proprio del fumetto. Da questo punto vista trova assolutamente l’idea di trasformare questa prima stagione in un immenso prequel/reboot dell’originale, e di concludere il tutto con un super twist che azzera tutto, apre ogni scenario possibile e porta la storia esattamente al punto in cui quella del fumetto aveva avuto inizio.

La serie AMC è divertente, ben girata e con interpreti assolutamente all’altezza: si respira l’epica del western, la puzza di marcio del pulp di serie B, lo sconforto esistenziale dei drammi più cupi, eppure si poteva fare qualcosa di più.

Il tema e la rappresentazione della violenza, in particolare, sono la vera occasione mancata e allo stesso tempo la più grande opportunità della serie per emanciparsi in futuro dalla fonte cartacea. Finora Preacher è stata fin troppo misurata, convenzionale e stilizzata nella messa in scena, non per una questione di quantità ma di qualità e di impronta. Da questo punto di vista una serie come Daredevil, pur infinitamente meno profonda quanto a contenuti e stimoli, risulta decisamente più potente nell’arricchire, a colpi di estremo e brutale realismo, una componente che in questo genere di prodotti non riusciva mai ad emanciparsi dalla mera stilizzazione “cartoonesca”.

Preacher (da un punto di vista registico, narrativo, fotografico e culturale) è molto più di quanto sia stato fatto finora nella trasposizione di molti fumetti, ma non è ancora abbastanza consapevole, coraggiosa e matura per poter assurgere ad efficace strumento di analisi e di comprensione del reale. Diverte, ma non sorprende; espone e mette in scena la violenza, ma non al punto da spingere lo spettatore ad interrogarsi sull’effetto che gli provoca il guardarla. Né lo stimola ad approfondire il substrato sociale, etico e culturale della società che l’ha prodotta, che se ne nutre e di cui egli stesso fa parte, un aspetto che era invece intrinseco e portante nel lavoro di Ennis.

Riuscire a mischiare la profondità e la complessità di The Wire in un prodotto che per linguaggio e ritmo diverte e intrattiene come Banshee: ecco la vera possibile sfida di Preacher, qualcosa che nel mondo seriale ancora nessuno è riuscito a fare: mettere in scena una storia che affronti il tema della religione, della direzione morale di un intero paese, dell’abuso della violenza, dell’incapacità e dell’inadeguatezza delle istituzioni e del vuoto di valori di generazioni vecchie e nuove, attraverso le avventure di preti “de menare”, donne fatali e vampiri alcolizzati.

Una sfida che potrebbe trasformare Preacher nell’equivalente, su piccolo schermo, di quello che Pulp Fiction ha rappresentato sul grande, almeno potenzialmente. E se non credete a me, credete sempre a Joe Lansdale:

Questa roba è unica, una falla nella diga dell’uniformità (…) un racconto fuoriuscito dall’Irlanda, trascinato nel Texas con un’erezione sanguigna, incarnato nel filo spinato e negli aculei di una rosa”.

Autore: Benedetto Solazzi
Pubblicato il 31/10/2016

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