Poltergeist - Demoniache presenze

Ghost story dalle schegge horror stretta nell’abbraccio di due padri, tra stupore dell’infanzia e inquietudini di un intero decennio

Curiosa creatura Poltergeist - Demoniache presenze di Tobe Hooper. Che diventa a sua volta ipotesto, dopo essere stato ai suoi tempi un interessante e affascinante crocevia di riferimenti e suggestioni, con il recupero dell’eredità allusiva dell’horror classico, sovrapposta alla fantascienza spielberghiana dei primi anni Ottanta, lasciando tuttavia riaffiorare sottopelle l’anima politica del New Horror tra Craven e Cronenberg.

Un’opera ibrida, come i corpi in perenne metamorfosi che animano il decennio – sospesi tra la vita e la morte, l’umanità e l’animalità, il corpo e la macchina – e che proprio da questo suo incerto statuto trae linfa, pervaso da una costante tensione tra orrore e fascinazione per l’alterità, chiaramente attribuibili a due approcci così distanti come quello del produttore-sceneggiatore Steven Spielberg e l’occhio registico di Tobe Hooper, indissolubilmente legato all’ immaginario materico di Non aprite quella porta

Eccoci allora nella provincia americana delle villette a schiera, lontana anni luce dalle atmosfere torride e opprimenti del film del ’74, dalla sua dimensione di frontiera ancora western, comune alle Le colline hanno gli occhidi Craven; come aveva già preannunciato sul finire del decennio precedente il Boogey Man di Carpenter, il grande scarto tra il New Horror 70s e quello 80s sta proprio nel segno inverso di un moto non più rivolto verso l’esterno, come appunto nel western, ma verso un’invasione dall’esterno, storicamente appartenente alla fantascienza.

L’orrore penetra nelle case, dai nervi lasciati scoperti, nutrito dai sensi di colpa, dai rimossi di una società dalla coscienza sporca, per le cui colpe pagheranno i figli. È l’assunto di Nightmare on Elm Street, che arriverà appena due anni dopo, ed è la chiave narrativa del bellissimo incipit del film di Hooper, che mostra questo padre addormentato davanti a uno schermo televisivo, le cui onde attraggono fatalmente la piccola Carol Ann, presenza angelica subito bersaglio del Male.

Già da qui il film comincia a oscillare dall’abbraccio stretto e opposto dei suoi due padri, alternando il discorso hooperiano a quello del geniale e invadente produttore, la cui mano si avverte nel ritratto dell’infanzia, come stagione unica di scoperte e terrori: c’è la cameretta colma di feticci, Clue(do), poster e action figure di Guerre Stellari; c’è la figura archetipica del clown, di lì a qualche anno formalizzata dall’IT di Stephen King (che Spielberg avrebbe voluto come sceneggiatore…); ci sono le paure ancestrali del temporale e del buio come presagi del Male incombente, materializzazioni di incubi come si ritroveranno anche nelle allucinazioni dei protagonisti di Piramide di paura, altra chicca fantasy del decennio, in combutta con Chris Columbus. E c’è soprattutto una fascinazione per l’ignoto (“ricordati di quando avevi una mente aperta”, premette Jobeth Williams al marito ormai dedito alle letture reaganiane per introdurlo ai fenomeni paranormali avvenuti in cucina) che si palesa con persistenza nella prima sezione dell’opera, con inquadrature riprese pari pari da Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. - L’extraterrestre

Dal canto suo, Hooper affronta invece Poltergeist - Demoniache presenze come occasione per riandare con la memoria ai suoi autori, al Robert Wise del fondamentale The Haunted, come ad Hitchcock, citato addirittura con un “effetto Vertigo” nel corridoio. Confrontandosi quindi, con l’eredità più nobile del genere, in una netta presa di distanza dalle accelerazioni visive dell’ultima parte di Texas, col suo accanimento su corpi putrefatti e occhi allucinati dall’orrore, che risulta oggi affascinante, perché da un lato non eguaglierà mai la potenza di quello che resta il suo capolavoro, ma dall’altro ha il pregio di connettersi con le inquietudini del proprio tempo e del futuro, prefigurando i corpi cyber che domineranno il decennio, qui allo stato embrionale, immersi in una dimensione spiccatamente classica e fiabesca – Poltergeist - Demoniache presenze è a conti fatti una ghost story dalle schegge horror – quasi volesse raccontare l’infanzia di quelle mutazioni che raggiungeranno la maturità in Videodrome.

Tra effetti speciali ancora artigianali, a cui oggi non si può far a meno di guardare con divertita nostalgia, tifoni che rimandano addirittura al Mago di Oz (su cui, anni dopo, torna a ragionare un altro autore new horror come Raimi), guardare oggi Poltergeist - Demoniache presenze, soprattutto al cospetto del suo asfittico remake, significa ritrovare un mondo in cui il genere sapeva davvero interpretare le angosce di una società e plasmare il suo pubblico, insegnandogli a contare i tuoni perché imparasse a non avere più paura del temporale.

Autore: Fabiana Proietti
Pubblicato il 12/07/2015

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