Policeman

Policeman è un eccellente esempio di film letteralmente scolpito nelle contraddizioni interne di un paese.

Policeman, vincitore del Premio della Giuria a Locarno nel 2011 e trionfatore al Jerusalem Film Festival, è un eccellente esempio di film letteralmente scolpito nelle contraddizioni interne di un paese, alle quali, per forza di cose, non può non corrispondere un immaginario cinematografico altrettanto controverso, irrisolto e barbaro. L’opera di Nadav Lapid, non a caso, è spaccata in due: a una prima parte più circostanziale, che riflette sull’idea della messinscena del corpo in tutte le sue sfaccettature possibili, dal machismo alla maternità, dall’ostentazione del muscolo a quella delle protuberanza fetale del fisico femminile, segue una seconda violenta e tragica. Un dislivello di tono che dà a quest’opera prima le sembianze di un esercizio cinematografico assolutamente politico, che lavora sulla forma per convogliare sullo schermo tutta la radicale potenza di un conflitto. Dopo essersi soffermato su un poliziotto e su alcuni suoi colleghi membri di una squadra anti-terroristica, il film inizia con un ballo a torso nudo del protagonista dinanzi alla sua donna, incinta e distesa su un divano a pancia all’aria. Una sequenza di totale libertà, che respira a pieni polmoni tanto quanto il personaggio maschile che la vive appare sicuro di sé e spavaldo agli occhi dello spettatore: tasta il corpo tonificato della compagna, sembra plasmarlo egli stesso con sicurezza e una dose non indifferente di sospensione erotica. Yaron, questo il suo nome, gode nell’essere parte del braccio armato del governo contrapposto alla minaccia araba, si bea narcisisticamente delle sue fattezze fisiche, del suo essere una specie di ingranaggio seducente, pompato e oliato. Non vede l’ora di essere padre, è quasi affascinato dagli eccessi di grasso dell’amata e la sua è una sessualità tutta d’un pezzo, cafona e sbandierata ai quattro venti anche se tutto sommato innocua. Yaron si fa portavoce di un’utopia salvifica in un mondo al collasso. Egli opera una saturazione, su di sé e sugli altri, sperando che ciò basti a fargli superare indenne le conseguenze di una guerra in atto, come se l’imperfezione dovuta al dramma della sopraffazione degli uomini sui propri simili possa essere tenuta in fuori campo per tutto il tempo che occorre. Come se il culto dell’immagine fosse, al cinema come nella vita, l’ultima speranza rimasta.

Il film, proiettato Fuori Concorso alla Settimana della Critica a Cannes, per metà coltiva quest’illusione con rigore impressionante: una classe registica che ha portato l’entusiasta e sempre acuto allora direttore di Locarno Olivier Père a scomodare paragoni illustri, a invocare addirittura una connessione, nel film, tra lo spirito di una manciata di cineasti non da poco quali Godard, Bresson, Fassbinder, Kubrick e Haneke. Tale controllo prosegue e se possibile si acuisce e si radicalizza anche nel secondo segmento in cui il film appare diviso: l’incontro con un gruppo di persone irrequieto e guerrafondaio porterà infatti Yaron a entrare in contatto col peso inequivocabile e mortifero dell’attualità israeliana, con la lotta di classe, col crollo simultaneo di ogni modello di superomismo e integrità, di splendore personalistico e culto dell’identità. Lapid, in quello che non è per nessuna ragione al mondo il solito, ennesimo film sul conflitto israeliano-palestinese, disegna l’escalation brutale di una specie di apocalissi da camera, in cui si guarda attraverso le porte e le (di)stanze, nella quale ci si richiude aspettando l’esplosione improvvisa di una catastrofe, con la consapevolezza che “per i poveri è tempo di diventare ricchi e per i ricchi è tempo di morire”. Il secondo blocco del film scardina dunque il primo attraverso la tensione e la scomposta crudeltà dell’assassinio, secondo uno schema nel quale il machismo autoconsolatorio lascia il posto alla buia tragedia virile della violenza cercata e voluta a tutti i costi, fino alla fine dei giorni e fino all’ultima goccia di guerra. Sacra o profana che sia non importa, alla fine della fiera, più nulla.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 03/10/2014

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