Piccola patria

In tempi come questi, la fuga è più di un ideale romantico: è l’unica alternativa all’abisso sociale ed economico, un progetto di vita minuziosamente preparato sin dall’adolescenza, quando si comprende con amarezza e spavento che la giovinezza non sarà quel periodo dorato descritto dall’immaginario popolare. Da un tentativo di fuga parte Piccola patria, per raccontare le vicende di due amiche, Luisa e Renata, costrette a una quotidianità scadente in un paesino dell’Alto Adige, e circondate da adulti spenti, risentiti, spaventati. Perché allora non vendicarsi di uno di questi, già sfruttato economicamente per la propria debolezza sessuale, ricattandolo con foto compromettenti per mettere insieme i soldi necessari a scappare da tutto? Se è vero che l’ambiente influenza le persone che ci vivono, Renata ha preso dal suo paese l’astio diffuso e generalizzato verso tutti, quella sottile convinzione di essere stata derubata di un futuro che le apparteneva; odia i suoi compaesani per la loro ignoranza e piccineria, come loro odiano tutti gli stranieri, senza differenza, colpevoli di aver invaso una terra non loro e per questo ladri e criminali. Luisa ha invece assorbito dalla sua terra il sole e la luminosità, impressa nel suo sorriso e nella sua voglia di cantare, gridare, andare in giro nuda e fare l’amore, malgrado un padre razzista e rancoroso e una madre spaventata dall’effervescenza quasi violenta della figlia. Come due lati di una medaglia, la luce e l’ombra, le due protagoniste vagano in una cittadina addormentata, tra ricchi clienti di hotel prestigiosi che dimentichi di tutto si godono la brezza in piscina, e i poveri abitanti sonnambuli ma di tanto in tanto pronti a risvegliarsi per urlare a gran voce di orgoglio nazionale, mire secessioniste, rivoluzioni sanguinarie.

Piccola patria non è assolutamente esente da critiche, in primis una sorta di estrema fascinazione dello sguardo verso la natura e le atmosfere della regione veneta e la convivenza di queste con le strutture fatiscenti dell’urbanità moderna: tanto attratto da questa commistione di verde e casermoni, campi e rifiuti, da perdere talvolta per strada il racconto, come un passante che mentre parli con qualcuno si interrompa a guardarsi intorno, affascinato da ciò che lo circonda, del tutto dimentico di ciò che stava dicendo. L’effetto che ne deriva è di un film troppo distratto dal proprio ambiente, spesso colpevole di divagazioni al limite del documentario che distorcono la concentrazione dalle vicende principali. In compenso però vi è nella pellicola una rappresentazione della mediocrità spirituale che attanaglia non solo la penisola italiana, ma in generale gran parte del genere umano, come non se ne vedevano di così ben fatte da tempo. Il problema frequente di un cinema che voglia raccontare il presente è di cedere agli stereotipi, o peggio alle caricature, siano di adolescenti in crisi, adulti problematici, cittadini meschini. Qui è invece perfettamente resa la miseria sociale sfogata nel razzismo, nella facile reiterazione della legge del più forte sul piccolo, e quell’aggrapparsi a quelle piccole ancore di sicurezza che confortano nello smarrimento, come la convinzione che sia tutta colpa di qualcuno in particolare, o il rifugio nella religione o nella morale bigotta; la ricerca insomma di qualcosa in cui credere per quanto grossolano, poco lineare o addirittura irrazionale, è la medesima sindrome che investe la quotidianità cui ormai ci siamo abituati. Poiché prima o poi il futuro, questo benedetto miraggio, arriverà per tutti, il film di Alessandro Rossetto avverte dei pericoli insiti nel rancore comune che si sta diffondendo a macchia d’olio dappertutto, raramente filtrato dalla ragione. Ci sarà un giorno in cui dovremmo fare i conti con l’ira dei giovani di oggi ormai invecchiati, rabbiosi come la generazione che li ha preceduti: e chissà se saranno più ragionevoli e saggi dei loro genitori.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 18/08/2014

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