Piazza Vittorio

Abel Ferrara ci racconta una Roma multietnica, accogliente quanto conflittuale, assumendo uno sguardo libero sul mondo in cui egli stesso vive.

Abel Ferrara ha un talento naturale per lo scandalo. Anche quando tratta temi apparentemente meno “osceni”, così come nel suo ultimo Piazza Vittorio, documentario presentato Fuori Concorso a Venezia 74, costringe lo spettatore a schierarsi con nettezza. Il suo cinema, a onor del vero, è sempre stato caratterizzato da provocazioni, sguardi radicali, istigazioni al posizionamento.

Sono due giorni che al Lido non si parla d’altro che di una sequenza: appena cinque i minuti incriminati, dedicati dal regista americano a tre attivisti di Casapound, gruppo neofascista che ormai da anni ha occupato uno stabile adiacente alla piazza. Ci si chiede, perfino da parte di chi il film non l’ha visto, se sia legittimo o meno dedicare tutto questo spazio a chi fa dell’intolleranza la sua ragione di vita quotidiana quando, in un film su piazza Vittorio, si dovrebbe invece raccontare il multiculturalismo e l’integrazione inneggiando all’accoglienza dei migranti. Non ci interessa, più di tanto, inserirci all’interno di un dibattito che riteniamo quantomeno riduzionista, se non miope; consideriamo più interessante, in questa sede, concentrarci piuttosto sul punto di vista del regista che, mai come stavolta, emerge politicamente in tutta la sua irruenza.

Innanzitutto, piazza Vittorio a Roma è un luogo popolato per lo più da migranti. Abel Ferrara decide di restituire la voce di chi quella piazza la abita quotidianamente, raccontando, di rimando, il presente di un’intera città. Il film inizia con un episodio di ordinaria intolleranza, dove un’anziana signora insulta dei ragazzi africani, rei di infastidirla nel suo percorso di attraversamento del parco al centro della piazza. Subito dopo, iniziano le interviste a immigrati di vario tipo: nordafricani, mediorientali, sudamericani, esteuropei, cinesi. Ma anche calabresi, lucani, siciliani, abruzzesi e altri. Lo stesso Ferrara si definisce subito con i suoi interlocutori come un “american immigrant”, che vive a Roma, proprio nei dintorni della piazza, da molti anni.

A introdurre il racconto corale, più volte riproposta nel corso del film, Do Re Mi di Woody Guthrie, trasposizione musicale di un passaggio di Furore di John Steinbeck, in cui la famiglia Joad, in cammino dalla “conca della polvere” per raggiungere la California, la “terra dello zucchero”, incontra un amico che consiglia loro di fare marcia indietro: il tanto decantato “giardino dell’Eden”, infatti, non è altro che un luogo di fatica, sfruttamento e morte per gli immigrati che non hanno la “grana”. La maggioranza di quelli che sentiamo parlare nel film sembrano aver già vissuto quel crollo delle illusioni di fronte a un ricercato e mancato Eden che vivrà, tragicamente, la famiglia Joad di Steinbeck, in fuga dalla Grande Depressione.

A partire da questa prospettiva, Ferrara decide di far raccontare la piazza esclusivamente agli immigrati: ci sono ragazzi appena arrivati da molto lontano, in estrema difficoltà, in cerca di lavoro; altri, ben più integrati, che vivono e lavorano in città ormai da diversi anni. L’unico romano di nascita è Matteo Garrone, intervistato a casa sua, che si definisce anche lui un immigrato, in quanto trasferitosi più di vent’anni fa a piazza Vittorio dal quartiere borghese dei Parioli. Quello che ne esce è un racconto corale, a cerchi concentrici, che si allarga dalla piazza, a raggera, sul mondo circostante, nel racconto ideale di una giornata da un mattino qualunque a quello seguente.

Ferrara si pone sempre allo stesso livello dei suoi interlocutori. Ogni tanto inizia delle discussioni, risponde a delle provocazioni, empatizza con le loro difficoltà. «I’m a desperado man, I need a fuckin’ job too!», risponde a un ragazzo che lo accusa di adottare un punto di vista dall’alto, tipico di un giornalista impegnato in un’inchiesta sull’immigrazione, e di non voler comprendere appieno la loro situazione. Ferrara, di contro, non vuole indagare un bel niente, né tantomeno dare risposte: vuole soltanto fare un film su un luogo che vive ventiquattro ore al giorno, andando a intervistare amici, conoscenti, sconosciuti assieme a una troupe di giovani filmaker, chiedendo alle persone cose semplici, filmando il quotidiano al fine di decostruire l’immaginario pubblico della piazza a partire dal suo sguardo.

Ne emerge, da un lato, una nostalgia di una piazza che non c’è più, soprattutto tra gli abitanti più anziani. «Prima era bellissimo, adesso è pieno di questi qua» dicono alcuni immigrati riferendosi ad altri immigrati. D’altronde, ci suggerisce Ferrara, siamo tutti immigrati, e dietro alla durezza delle parole di molti si nasconde la necessità di una convivenza quotidiana. Questa si evince, soprattutto, da piccoli gesti, filmati con la leggerezza quasi aerea di una passeggiata spensierata tra le vie del quartiere circostante. Seguendo questa linea, Ferrara ci mostra diversi minuti di repertorio di archivio della piazza, che collimano decisamente con i racconti degli immigrati più anziani: dalle straordinarie immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce a quelle a colori prese in prestito da Estate Romana di Garrone stesso, quel luogo d’un tempo non ci sembra poi così tanto diverso da oggi.

Il punto di vista che Ferrara adotta è, al solito, quello di un artista libero, anarchico e libertario. Per questo, non chiude mai i confini della piazza, si lascia andare con la macchina da presa a delle rapide divagazioni nelle strade circostanti, non ponendo mai limiti al suo cinema. Segue gli uomini e le donne, le loro idee, non certo le direzioni controllate, i sensi unici e i pregiudizi schematici. Per questo, decide di non ignorare una realtà che, ci piaccia o no, è entrata pesantemente a far parte dell’immaginario del quartiere. Assieme a lui, dunque, entriamo all’interno della sede di Casapound per ascoltare tre giovani militanti che parlano a vanvera di sovranità nazionale, estinzione degli italiani e plutocrazie occidentali. Ferrara non giudica né commenta le sue immagini, ma lascia elaborare allo spettatore un punto di vista di fronte ad esse. Nella scena successiva, con un montaggio sapientemente contrapposto, ci mostra dei ragazzi africani che suonano in piazza, nella quale immigrati di tutti i colori ballano insieme, in pace e armonia, alla faccia del conflitto identitario alimentato dalla propaganda dei “fascisti del terzo millennio”. Allo stesso modo, una comunità di sudamericani celebra l’inti raimi al parco del Colle Oppio, festa del sole incaica in cui si balla e canta tutti insieme, senza alcuna distinzione etnica, religiosa o geografica. Ed è con lo stesso senso di pace e serenità che Ferrara decide di chiudere il suo film: con una perturbante sequenza felliniana, dove decine di uomini e donne, partecipando a una processione notturna su una via Merulana chiusa al traffico, si allontanano lentamente da quella piazza dove tutto era cominciato, chissà dove diretti. E noi con loro, smarriti e privi di riferimenti, investiti da un cinema libero e senza più confini.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 10/09/2017

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