Patria

Un film pieno di buoni propositi che manca l'obiettivo di raccontare consapevolmente gli ultimi decenni della storia italiana

Nel 2009 esce Patria. 1978-2008, di Enrico Deaglio, 1000 pagine, trent’anni di storia italiana raccontati uno ad uno dal rapimento di Aldo Moro ad oggi: è un progetto ambizioso, una sorta di breviario cronologico dei maggiori eventi politici, sociali e culturali avvenuti nel Bel Paese che vuole provare a capire, ripercorrendo le singole relazioni di causa e effetto, come abbiamo potuto impantanarci in una crisi economica come quella che stiamo vivendo ora. Adattare al grande schermo un saggio storico del genere comporta o l’assoluta fedeltà al testo – e in tal caso vien può venir fuori solo un lungo reportage documentaristico – o la scelta di orientarsi verso una piena libertà di scrittura. In entrambi i casi è necessario compiere un lavoro di selezione degli eventi, decidere quali storie, quali shock collettivi portare al cinema. Il film di Felice Farina opta per una completa autonomia narrativa, inventando un contesto di finzione in cui far evocare, come diretti ricordi dei protagonisti, gli avvenimenti salienti tratti dalla cronaca ricostruiti secondo i filmati dell’epoca.

Nell’ennesima fabbrica vicina alla chiusura l’operaio Salvo tenta il tutto per tutto barricandosi sulla torre più alta dell’edificio. Maturato all’ombra dello strapotere televisivo, l’uomo pretende l’arrivo della tv per dar visibilità alla vicenda, raggiunto in seguito dal collega sindacalista Giorgio e da un impiegato autistico e ipovedente, Luca, che segue i due ripetendo a memoria stralci tratti dal suddetto libro di Deaglio. Nella notte che viene i tre si confrontano a modo loro sulle vicende fondamentali degli ultimi decenni italiani, da Moro a Tangentopoli, passando per Michele Sindona e Giorgio Ambrosoli: è una rivisitazione pilotata dai diversi punti di vista, da un’inclinazione destrorsa a un nostalgico comunismo, con freddi riassunti recitato dall’impenetrabile Luca.

Costringere chi guarda a confrontarsi con avvenimenti che in gran parte ha vissuto in prima persona è un’operazione lodevole, cui Patria si presta con tutta la buona fede possibile: ma oltre alle intenzioni ci sono i risultati, e l’esito finale del film raggiunge a malapena la sufficienza, complice l’eccessiva spinta verso la componente emotiva del racconto a discapito dell’analisi razionale dei fatti. L’operaio che ha votato per Berlusconi “perché almeno era divertente” e il serioso sindacalista con i suoi paroloni forbiti sono stereotipi consolidatisi nel nostro panorama culturale, quella Sinistra altezzosa sempre in minoranza e quella Destra superficiale, godereccia che sopravvivono tuttora come figure ideali del discorso politico italiano. Farina interroga lo spettatore sul suo passato, ma le sue domande vertono soprattutto sui lampi emotivi, non ragionati che alcuni nomi e fatti rievocano in lui.

Un viaggio estemporaneo così immaginato vien meno al proposito originario di comprendere, risveglia sentimenti per poi farli smorzare lentamente in un registro narrativo che nulla aggiunge alla questione storica: ricostruzione per ricostruzione risulta allora più efficace il brevissimo riassunto delle stragi presentato all’inizio de Il Divo di Sorrentino, ricreando sullo schermo la dimensione violenta, esacerbata, quasi parossistica degli intenti di chi, nascosto dietro lo Stato, teneva i fili di una democrazia costantemente adulterata. Le emozioni, così confusamente raccolte, possono solo annebbiare la mente: è il caso di dire che il cinema italiano ha bisogno di un discorso ben più rigoroso ed efficace – e anche indipendente dalle classiche immagini di repertorio, tanto inflazionate da svuotarsi di senso - per elaborare una riflessione realmente costruttiva su come siamo arrivati a questo punto.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 30/08/2014

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