Pasolini/Ferrara - La crisi permanente

di Abel Ferrara

Attraversando Pasolini Abel Ferrara mette in scena lo stallo del mondo

Pasolini di Abel Ferrara ag

Ci voleva un film come Pasolini per rompere la “Pax Barberana” a Venezia, e, in particolare, un concorso ufficiale pericolosamente inclinato verso la restaurazione e la rigida geometria delle forme. L’ultimo film di Abel Ferrara emergeva, in mezzo a titoli anche validi ma molto più legati a codici e linguaggi sedimentati e pacificati, come l’equivalente cinematografico di un concetto spaziale di Lucio Fontana. Tela figurativa, sì, ma comunque lacerata, aperta al mondo e alla necessità di esplorarne le nuove configurazioni e contraddizioni. Qual è la forma, quale il linguaggio giusto per raccontare la crisi permanente del nostro tempo? Come rappresentare Pasolini dopo Pasolini e ritrovare, al contempo, le corrispondenze perdute tra il cinema e il suo tempo?

Alla base della ricerca artistica di Abel Ferrara si trova il bisogno di intaccare il reale, di saggiarne la consistenza. Una ricerca nata dalla progressiva abrasione linguistica del suo cinema, che a partire da Il cattivo tenente è andato sempre più a fondo nella materia corporea dell’attore e del suo rapporto con lo spazio – lo spazio del reale abitato come finzione. Si pensi a 4:44 Last day on Earth e a Welcome to New York: cinema performativo ormai purissimo, dove la storia coincide con l’attore moltiplicato per il movimento e il senso «emerge dall’interfacciarsi del corpo dell’interprete con il set».

La forma è dunque spezzata, eventualmente ricomposta in schegge di narrazione il cui unico contesto e peritesto è frutto di un’interpretazione e una partecipazione attivi dello spettatore. Ciò che fa Ferrara è costruire una meta-forma capace di rappresentare la crisi permanente, ontologica, del cinema e del reale. Crisi che non poteva che passare per Pasolini, che la viveva nel privato così come nella propria arte. Petrolio è l’antiromanzo per eccellenza, la belva di lettere partorita da una mente ormai conscia dell’inutilità delle forme espressive tradizionali – dunque borghesi, predigerite per un innocuo consumo collettivo. Petrolio è il punto di arrivo di un’esistenza colma di vive contraddizioni: il sesso e il sacro, la religione e l’ateismo, il rigore e la visceralità delle passioni. Il romanzo, la poesia e il cinema codificato erano, per Pasolini, inutili e insufficienti a cambiare le cose. Di questa intima lacerazione si trovano esempi ovunque nella sua produzione artistica: il grido alla fine di Teorema, lo scandalo sessuale di Salò o del mai realizzato Porno-Teo-Kolossal, lo stesso Petrolio.

Da tutto questo magma, che potremmo definire pasoliniano, Ferrara estrae la propria versione della storia. Una storia dove Pasolini è quasi invisibile, sostituito dal mito dell’intellettuale e dal suo immaginario poetico. Questo è l’unico Pasolini possibile, aperto e iniettato di realtà, lontano da qualsiasi tentazione figurativa. Lo sguardo, per Ferrara, non è sufficiente a rappresentare l’uomo, né tantomeno la via crucis pasoliniana che è sintesi e destino dell’umanità tutta. La mimesis è da superare: dobbiamo entrare nella carne e superare lo scotoma di un cinema che non sa mettere a fuoco che se stesso. Risulta allora semplice comprendere il perché del linguaggio visivo di Ferrara, imperfetto, poroso e colmo di oralità piuttosto che di rigide grammatiche e inquadrature scritte per essere concluse, definite, definitive.

Ferrara ci sta dicendo, mai così chiaramente, di guardare la Luna e non il dito. Ferrara ricrea Pasolini; lo uccide per farlo rinascere, per tramandarne la verità e la voce. Arriva a far quasi scomparire il corpo di Willem Dafoe, e dunque la cornice narrativa fondamentale. Pasolini è inghiottito dalle ombre e sottratto alla vista. Ancora una crisi, uno stallo: la visione è messa in scena in quanto incapace di vedere. Pasolini è un lamento e rappresenta i limiti del cinema, tentandone un superamento per ritrovare una forza testimoniale di fondo. Semmai, il cinema di Ferrara vuole assurgere all’epifania, o al distacco analitico. Visceralità e rigore. Si tratta di tramandare un canto, una voce viva che possa dissipare l’oscurità. In questo senso, Ferrara è uno dei pochi eredi del cinema pasoliniano, pur essendo diversissimo dal poeta friulano sotto quasi ogni aspetto. Entrambi hanno rinunciato al cinema-istituzione, preferendo un’antropologia poetica per immagini. Irrequieti sguardi nomadi, ultimi uomini sulla terra.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 06/10/2014
Regia: Abel Ferrara

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