Noah

Darren Aronofsky è un regista tanto sanguigno quanto, potenzialmente, rozzo oltre ogni limite immaginabile. La sua breve filmografia lo conferma: anche nei progetti più indipendenti d’inizio carriera il suo sguardo era ambizioso e votato al fascino per il gesto eclatante e arrischiato, quel genere di atto che può innalzare un film alle stelle o farlo scivolare rovinosamente negli inferi. Rispetto al suo ultimo Il cigno nero, qui Aronofsky il budget l’ha decuplicato: esattamente, da 13 milioni di euro è passato a 130 per un film sulla figura biblica di Noé, operazione accarezzata fin da ragazzo e perfettamente in linea con lo spirito mastodontico di un regista che non disdegna di scendere a patti con la grandiosità e la magniloquenza anche solo tentate. Se la mente ritorna per un attimo a quel narcisistico aborto naif che era The Fountain – L’albero della vita (si perdonerà il masochismo di questo esercizio), si realizzerà senza troppi di indugi di avere a che fare con un regista evidentemente affascinato dalla dismisura e dalle implicazioni autoriali, cinematografiche e verrebbe da dire soprattutto industriali che essa comporta. Anche a prezzo della dignità e del ridicolo. Stavolta però il tema non èsolo un’ossessione personale come lo era per il film con Hugh Jackman e l’ex compagna Rachel Weisz (la passione di due amanti attraverso il tempo), ma il mito molto più spinoso di uno dei personaggi chiave dell’Antico Testamento. Per Aronofsky, l’occasione ideale per gettare benzina sul proprio stesso fuoco. E di fumo, non a caso, intorno al film ne è sorto parecchio fin da subito: i cori montanti di disapprovazione delle associazioni cristiane ma anche vari test screening tutt’altro che beneauguranti non hanno fatto altro che alimentare scetticismo e perplessità. A ben guardare la riuscita finale, per lo meno nel cut in cui essa è approdata in sala dopo varie psicosi produttive e rimaneggiamenti, si trattava di arricciate di naso e inarcate di sopracciglio decisamente comprensibili.

Noah è infatti un film sbagliato nel modo più macroscopico e grossolano in cui un film può esserlo. Aronofsky di questa storia ha scritto anche un fumetto, che a sentire i bene informati e coloro che l’hanno letto spinge molto di più sulla violenza e sugli aspetti più crudi. L’opera cinematografica invece è un accostamento bolso e farraginoso di frasi enfatiche e pleonastiche, un carrozzone che annaspa sotto i colpi letali di una manciata interminabile di situazioni rabberciate che non riescono a restituire sulla scena né il pathos dovuto né alcuna forma, mitica o epica che dir si voglia, di coinvolgimento. Aronofsky esagera coi passaggi a vuoto, ricorre ad abusate formule di scrittura e a momenti visivi che stanno lì a sottolineare in maniera implacabile l’arretratezza di un pensiero filmico piuttosto debole e poco incisivo, privo di qualsiasi originalità e pressoché inadatto ad accordarsi con la portata di certo non da poco dell’adattamento che il regista di The Wrestler intendeva perseguire. Senza contare la perniciosa ripetizione di soluzioni grafiche a dir poco pacchiane e opinabili, tra cui un orrendo serpente dell’Eden in digitale che si candida ad un posto di diritto per concorrere tra i peggiori effetti speciali dell’anno. Il titanismo da semidei cui Noah costringe la sua famiglia, ragazzi-uomini e donne-bambine costretti dal patriarca ad estraniarsi dal resto dell’umanità sommersa dal diluvio per portare in salvo i viventi rimasti, è la stessa che il regista si addossa sulle proprie spalle. Ciò si traduce tuttavia in un film che gli frana sulla testa rovinosamente, in cui perfino la recitazione è paludata e affettata e non può fare a meno di suonare innaturale. C’è insomma, in Noah, una sensazione diffusa di inadeguatezza, di retoricume abbandonato a se stesso e spesso agghiacciante. L’autore di Requiem for a Dream fa un film che si fatica a definire spirituale, per non parlare della discutibilità che acquista l’aggettivo religioso in un simile contesto: non c’è, come si direbbe in questi casi, un lavoro sull’astrazione dei dubbi morali del protagonista e tutto coincide col terreno grezzo dell’estemporaneità (ogni scena non è in grado a dialogare col resto, come se non avesse un’intima ragione per stare dove sta). Noah, al di là della corpulenta stazza di Russell Crowe, è un film pesantemente fisico nel senso pieno del termine. In una parola, paludato. Immanente laddove avrebbe dovuto essere metafisico, complessivamente in direzione ostinata e contraria rispetto alla strada non solo più giusta ma anche più doverosa da percorrere.

In Noah ci sono (solo?) carne, muscoli, rabbia, scontri corporali, legno e pioggia: solo agenti naturali e forze ancestrali (il fuoco, il parto, in un finale comunque un po’ in crescendo) proposti in totale assenza di guizzi e di ispirazione, e i dialoghi con Dio, anche quelli semi-kitsch come tutto il resto, sono confinati ad attimi isolati e non troppo approfonditi. Cosa c’entra, l’approccio a un testo sacro, con tutto questo? In che misura può essere giustificata, al di là di una ribalda e insopportabile ruffianeria, una presa di posizione così sfacciatamente pan-ambientalista, col cattivone di Ray Winstone messo lì a fare da puntello per sottolineare in modo sguaiato e dissennato il contrasto con la tensione ecologica del regista? Aronofsky fa di Noah “il primo supereroe della Bibbia” fornendone così una visione in larga parte volgarissima, anziché affiancarsi davvero ai dilemmi dilanianti (o alla loro apparente mancanza, in un personaggio tutto d’un pezzo) e al fascino umanista di un uomo chiamato a portare avanti una missione che sente essergli stata imposta dall’alto della volontà celeste. Tale aspetto viene esacerbato solo nell’ultima mezz’ora, in cui Noé va in rotta di collisione totale con i voleri più umani della sua famiglia venendone così posto ai margini per la sua intransigenza. Un po’ poco. Aronofsky non è credente e solo il cieco fondamentalista cattolico può avergliene a male per questa ragione, anteponendo il credo fideistico all’interesse per lo specifico filmico. Ma anche da laico o presunto tale, il suo sguardo non vale granché, sepolto sotto ondate incontrollate di sequenze derivative (Il Signore degli anelli rifatto alla carlona: scene madri d’accatto e Matusalemme che sembra Gollum) e un narcisismo che si sbatte per essere significante ma senza incappare neanche per sbaglio in un fondo di significato. Aronofsky rischia, e com’è prevedibile toppa, inciampa e ruzzola giù dalla montagna elevatissima da cui voleva lanciarsi. Non c’era da aspettarsi poi tanto altro, da un regista che dichiara di non voler raccontare “la solita favoletta della colomba e dell’arcobaleno” per poi abbandonarsi a piccole sequenze piuttosto risibili nelle quali delle colombe posticce svolazzano sullo schermo e portano perfino dei ramoscelli d’ulivo in bocca. Ed è in questi dettagli che Noah rivela la sua fastidiosissima anima conservatrice e opportunista: è un film che sotto sotto vuol assestare il classico colpo al cerchio e alla botte, provando a fondere il contenuto e sommesso spettacolo popolare per i credenti più o menoautentici e il senso per un intrattenimento più roboante e trasversale senza arrivare però ad essere fracassone, ma nemmeno sobrio (con una spolverata di brutture da National Geographic a dir poco sconcertanti, come se non fosse già abbastanza). Una commistione ibrida fallita in partenza, che si traduce quasi solo in una posa anti-umanista fine a se stessa (ah la razza umana, che scempio!), pericolosamente ambigua e di dubbio gusto. Dagli esiti evidentemente e giustamente fallimentari.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 18/08/2014

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