Need for Speed

Tobey Marshall (il Jesse Pinkman di Breaking Bad, Aaron Paul) è un giovane meccanico che gestisce l’officina di famiglia. Il suo cammino incrocia quello di Dino Brewster (Dominic Cooper), antagonista dal giubbotto di pelle e dai maglioni a collo alto: sarà infatti proprio Dino ad incastrarlo, facendolo finire in galera e addossandogli delle responsabilità per il decesso di un ragazzo, per altro molto amico di Tobey, avvenuto durante una corsa clandestina che vedeva coinvolti entrambi. Scontata la pena, Tobey vuole vendetta e brama con tutto il cuore di poter finalmente saldare i conti. Per fare questo, vuole e deve fare in fretta, non fermarsi, aderire in tutto e per tutto al mantra del need for speed. Della velocità su strada come codice che regola la vita e la morte, in cui il tasso di coreografia e di digitalizzazione dei folli inseguimenti è naturalmente alle stelle, ma ciò non toglie che si possa morire davvero. E, quel che più conta, le conseguenze delle azioni non si cancellano certo resettando una gara, o tornando al menù d’avvio del gioco.

Il videogame da cui è tratto, Need For Speed di Scott Waugh, è uno dei più popolari e redditizi di sempre. Si tratta dunque di una ri-mediazione cinematografica dal bacino d’utenza abbastanza collaudato, concepita e costruita per sfamare i fan del videogioco originale con una storia che funga da pretesto per ritrovare in veste celluloidale il rombo dei motori di quelle auto incredibili e posticce. Nelle mani del regista del muscolare e bellico Act of Valor, ecco poi che il tono iperrealista si concretizza in scene dal sicuro impatto proprio perché dozzinali, ben giocate sul modello pedissequo del videogioco e dei canoni most wanted, ovvero di ciò che è più desiderato dallo zoccolo duro degli aficionados. Eppure, nonostante la chiara destinazione d’uso alimentare, Need for Speed alcune ragioni d’interesse le ostenta. In modo probabilmente inutile, qua e là perfino buffonesco, senza un’idea trainante ma allo stesso tempo con un’estemporaneità di vedute e una freschezza nel propinarle che lascia stupiti. Messa al sicuro l’immedesimazione del fanboy (il criterio chiave del passaggio da un medium a un altro, cosa che in questa sede non necessita di ulteriori approfondimenti), ecco che dal quadro rigido e (oggi) asfittico del b-movie a grosso budget emergono i contorni nitidi di dinamiche western modernizzate: tra novelli Steve McQueen (proprio il personaggio di Paul, fisicamente il più vicino) e sportelli che si aprono futuristicamente come in The Wolf of Wall Street, dettaglio che non mancherà di far sorridere chi ha visto il film di Scorsese. Il video-luddismo degli autori (si potrebbe anche leggere con una d, ma forse è meglio con due) non si ferma dunque dinanzi alla mera necessità di portare a casa un prodotto funzionale e godibile anche con la mano sinistra ma va oltre, sabotando quel tanto che basta l’impianto industriale del film con incursioni più devianti e rilevanti. È un atto di anarchia esile, leggero leggero in modo che non si veda e che non se ne parli. Ma c’è. E di tanto in tanto i film sembra svelare volutamente gli stessi meccanismi che gli stanno alla base, in un gioco sottile in cui quelle che dovrebbero essere piccole ma sostanziali reticenze vengono concesse allo spettatore con sprezzo del pericolo.

Anzitutto, la netta immagine di un’America senza più luoghi iconografici e simbolici di riferimento: lo skyline di una New York orfana delle Twin Towers ricorre anche troppo spesso e la corsa clandestina per eccellenza cui alla fine si approda, la De Leon, “è in California ma non si sa dove di preciso”, com’è giusto che sia per un paesaggio che ha perso le coordinate spaziali necessarie per continuare a identificare se stesso. Per non parlare della morale conservatrice da film medio americano, che non si ha paura di far emergere in tutta la sua tendenza al derivativo e al già visto, dal punto di vista sia visivo (“Sembra una scena di Speed!”, dice uno degli amici di Tobey, per altro da un aereo) che politico. A quest’ultimo proposito, è quasi guascone il modo in cui il nazionalismo reazionario viene cavalcato, grazie soprattutto alla presenza di un bolso e divertito Micheal Keaton nei panni del commentatore ufficiale della De Leon, che più tamarro di così difficilmente lo si potrebbe immaginare. Il suo personaggio parla delle auto in gara quasi con lirismo, definendole carri degli dei e splendidi fantasmi (sic!), ma dice anche che i corridori “sfrecciano sull’asfalto per dimostrare la verità”. “Run, baby, run!”, urla un secondo dopo, fornendo un assist non da poco alle note di Bruce Springsteen che hanno immediatamente da venire, incalzanti e puntuali come sull’annuncio di un deejay vero e proprio. A intervallare questi interventi in forma di monologo ammiccante e grottesco, bandiere americane che compaiono studiatamente e frasi altrettanto inneggianti all’immobilismo dei ruoli come: “I corridori devono correre e i poliziotti devono mangiare ciambelle”. Ma non finisce qui. Perché il viaggio di Tobey e della sua amata per le strade d’America è una celebrazione dei quindici minuti di fama warholiana sul modello sparatutto di un film nel film vagamente alla Bonnie & Clyde. Macchiato, ovviamente, di sangue e rivelazione (tardiva) dell’amore. E non è un caso che Keaton, in un altro punto del suo sproloquio fuori di testa ma mica tanto, dica testualmente:“Ecco la mia zuppa Campbell!”. Gli amanti dal canto loro soffrono insieme e si scoprono complici, scambiandosi i posti dei sedili davanti in un momento di stupore e tesissimo romanticismo partecipato davvero isolato e notevole, da preservare in mezzo al massacro del resto. A completare il tutto, un uso anch’esso videoludico del dolore (musiche in levare, cieli blu terso da bagnare con le lacrime di un lutto) e una colonna sonora qua e là sorprendente (un plauso al bravo Nathan Furst): si guardi in particolare al theme iniziale, tra slide di chitarre elettriche e sintetizzatori a mo’ di orchestra sinfonica; un tappeto sonoro memorabile, fascinoso e febbrile, che sembrerebbe rubato agli scozzesi Mogwai e potrebbe tranquillamente stare in uno dei capolavori urbani di Michael Mann. Alla fine, comunque, sarà solo e semplicemente un cazzotto, il più banale e tradizionale dei pugni, a sistemare tutto, a riprova della prevedibilità voluta fino alla fine, anche un attimo prima che il nastro si riavvolga, pronto a ripartire. Altro giro, altra corsa.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 17/08/2014

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