Mektoub, My Love: Canto uno

Mektoub, My Love: Canto uno conferma tutti gli enormi limiti del cinema del regista. In primo luogo di sguardo.

Mektoub. Letteralmente ciò che è scritto. Il destino secondo gli arabi. È interessante la scelta di un titolo che evoca un ordine più grande, un orizzonte predeterminato, per un film che vorrebbe al contrario essere libero, “aperto come la vita”, con un’immediatezza e una spontaneità tale da farci persino dubitare dell’esistenza dello script. Bel paradosso, in effetti, considerato anche lo sviluppo di questo progetto, inizialmente concepito come un solo film e poi sdoppiatosi, in attesa del terzo capitolo che il regista dovrebbe girare nei prossimi mesi. Ovviamente è possibile che nei successivi due Canti Abdellatif Kechiche sviluppi questa nozione di destino, chissà se legata al cinema, al quale il giovane protagonista (quasi un alter-ego del regista) tende come fotografo e aspirante sceneggiatore, oppure all’amore, a cui il film sembra approdare nella bella passeggiata sulla spiaggia che suggella il finale.

Quel che è certo è che qui Kechiche porta alle estreme conseguenze la sua idea di cinema anarchica e corporea, con un fluviale racconto d’estate (ma Rohmer non c’entra proprio nulla) sul percorso di crescita di un ragazzo franco-tunisino, Amin, e sugli intrecci, per lo più amorosi, che coinvolgono amici, parenti e conoscenze occasionali. Siamo nel 1994 a Sète, cittadina francese affacciata sul Mediterraneo, dove convivono pacificamente francesi e comunità africane, in particolare quella tunisina (da cui proviene lo stesso regista). Attraverso lo sguardo di Amin ci inoltriamo nelle abitudini del luogo: cene nel ristorante di famiglia, bevute nei bar di quartiere, lunghi bagni al mare e sensuali serate in discoteca. Pedinamenti che mai come in questo caso cercano di replicare i tempi della vita, fregandosene del loro potenziale narrativo. Quello che interessa Kechiche è ancora una volta la coreografia “occasionale” dei corpi nello spazio, la loro carica erotica e vitale, le traiettorie dello sguardo, i giochi dell’amore e del caso. In questo senso, Mektoub, My Love potrebbe essere considerato come il punto di arrivo della ricerca cinematografica di Kechiche.

Peccato solo che questo esito, per molti grandioso, confermi tutti gli enormi limiti del cinema del regista. In primo luogo di sguardo. Pensiamo alla sua invadenza voyeuristica, già presente in Venere nera e La vita di Adele, che qui diviene insopportabile. Raramente ci era capitato di vedere film che insistono con tanta spudoratezza e gratuità sui corpi (soprattutto femminili, bien sûr) senza che vi sia la minima giustificazione narrativa né tanto meno la capacità registica di erotizzarli (in senso rohmeriano, per esempio). Tutto quello che nel cinema erotico è alluso diviene in Kechiche esposizione frontale e sfacciata di corpi gettati in pasto allo sguardo degli spettatori, senza alcun effetto liberatorio per il pubblico, né tanto meno per i personaggi. Altro che fame di vita, energia, desiderio. Gli uomini e le donne di Kechiche rispondono soltanto ad uno stanco copione sempre uguale (e per certi versi sempre più perverso) in cui non sono ammessi imprevisti o deragliamenti. A contare è solo lo splendore delle superfici, la loro esibizione sfrenata, così come, allo stesso tempo, l’occultamento del metodo che ha prodotto quelle immagini. Il lavoro del regista consiste proprio nel camuffare i suoi script dietro un’estensione temporale che arrivi, minuto dopo minuto, ad allontanare l’idea di messa in scena, di ricostruzione. Quasi una jam-session a binario unico in cui la sola espressione di libertà e di vita possibile è il flirt, lo strusciamento, la malizia, il contatto.

Dentro Mektoub, My Love ci sono dunque due film che convivono, uno discreto e uno orrendo. Da un lato abbiamo quello che segue Amin ed il suo gruppo di amici. Le chiacchierate, i corteggiamenti, i balli, le cotte, le delusioni, ecc... Insomma Kechiche puro. Dall’altro quello personale e ossessivo di Kechiche stesso con la bella Ophélie – oggetto del desiderio di Amin – esaltata in tutte le sue grazie. Fino a scadere nella pornografia estetica, proprio perché ingiustificata rispetto alla focalizzazione del film. Se è vero che il punto di vista coincide con quello del protagonista è altresì vero che questa coincidenza viene messa in crisi in più occasioni dal regista, attraverso piccoli momenti in cui Amin non è presente né osservatore. Vedi ad esempio la breve scena in cui Ophélie si cambia prima di andare a lavoro. Stesso discorso per la macro-sequenza in discoteca, dove la prospettiva dell’istanza narrante non coincide con la posizione di Amin. Altre gratuità assortite rafforzano la nostra impressione: baci saffici in favore di camera, accavallamenti alla Basic Instinct, contre-plongée ginecologici, ecc... in un vero e proprio campionario di sensualità dozzinale buona solo per far ingrifare il maschio medio.

In questo senso vengono in mente certe pratiche aberranti del passato che vedevano i colonialisti europei esporre senza ritegno i corpi delle donne africane ed “esotiche” allo sguardo morboso delle platee. (Episodi raccontati proprio da Kechiche in Venere nera, che alla luce di Mektoub possiamo considerare come una dichiarazione di “poetica”). Che sia questo il vero punto di congiunzione tra musulmani e cristiani ricercato dal regista negli anni Novanta?

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 08/09/2017

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