Mekong Hotel

Le ossessioni liquide del cinema di Apichatpong Weerasethakul convergono in un albergo popolato di fantasmi.

“Diffidate, bambini, l’acqua vi entrerà nella bocca” (Mekong Hotel)

Un chitarrista dimentica la sua stessa melodia e, per tutta la durata di Mekong Hotel, cerca di rammemorarla. Piccole variazioni su un motivo che ripete similarmente le sue note, come a voler far chiarezza dentro di sé. La speranza è quella di ritrovare, per effetto di una magia sconosciuta, l’identità perduta di una volta, come in una sorta di reminiscenza sonora.

Accordi musicali che si reiterano ciclicamente, voci di una ricerca interminabile che procede in modo affine, mai uguale. Sono le variazioni sul tema, le differenze invisibili, i piccoli traumi che alterano la nostra percezione fenomenica.

Con Mekong Hotel, Apichatpong Weerasethakul aggiunge un tassello fondamentale alla sua filmografia. Come un ufo che trova la sua localizzazione ideale non più nella sala cinematografica, ma oltre la sala stessa, all’interno della mente dello spettatore. Questo cinema atavico, primordiale e liquido ci riguarda, perché dice, in immagini che sembrano versi poetici, che noi siamo tutte le trasformazioni, tutte le identità, tutte le vite che ci hanno preceduto.

Il regista thailandese continua a configurare una stasi dinamica, un’immobilità che è tale solo perché tradita, messa in questione, pervasa da movimenti impercettibili. Il cinema di Weerasethakul, che mira a una vera e propria dislocazione dell’occhio, reitera il suo verbo fondamentale: revivre. L’intera costellazione di miti, esistenze ancestrali, nature scosse e brulicanti di mistero, possiede e alimenta tutti i personaggi del Mekong Hotel. Il vero protagonista del film è infatti la leggendaria figura thailandese del Pob, fantasma che infetta il singolo individuo e lo trasforma in un essere che si alimenta di carne umana.

Non ha senso cercare di localizzare un film inclassificabile, Weerasethakul continua a essere un unicum, una rarità, un nome che sfugge al cinema stesso.

Anche qui assistiamo, almeno a prima vista, a una sorta di documentario sul Mekong Hotel, l’albergo affacciato sul fiume che separa la Thailandia dal Laos. Nessuna comunicazione tra i due paesi, ma una distanza impenetrabile. Ci troviamo subito dopo le terribili inondazioni che colpirono la zona. I protagonisti commentano a più riprese la ferocia di un’acqua “che non ascolta”.

Ben presto s’instilla nello spettatore la sensazione che l’albergo sia popolato unicamente da fantasmi. Come gli spettri dello zio Boonmee che rivivono le vite precedenti, questi sono sempre alle prese con un atto di rammemorazione. Cercano di risalire alle fondamenta, di tornare al punto originario, di ascoltare l’acqua, quasi come fosse una sorta di anamnesi interiore, di viaggio redentivo, di ipotesi purificatrice.

In questo microcosmo abitato da spettri tristi e malinconici, si trova il varco d’accesso per l’altro mondo dell’autore thailandese: l’unico modo per sfuggire all’oblio è conservare in sé tutte le esistenze già vissute e assistere alla loro inevitabile trasformazione. Ogni elemento della terra è sottoposto a una continua, vitalissima metamorfosi. E così l’occhio del regista, attratto da fenomeni che non possono far altro che cambiar pelle, seppure impercettibilmente.

Si arriva dunque all’inquadratura interminabile che conclude il film: l’acqua del fiume Mekong continua e continuerà a scorrere imperterrita. Panorama magmatico, pienissimo eppure già vuoto, immagine-tempo per eccellenza che, nella sua liquidità, frammenta lo sguardo stesso dello spettatore. Tutto il film, attratto e spaventato da un’acqua che uccide e vivifica, perde ogni ipotesi di solidità e si liquida definitivamente al nostro cospetto.

Guardare significa perdersi e quella di Mekong Hotel appare come un’esperienza ipnagogica allo stato puro, dove l’occhio si smarrisce nelle singoli parti dell’immagine, sottraendosi alla tirannia dell’insieme. Cerca di vedere oltre, prova a catturare un movimento inverso, una contrazione, un singolo spostamento d’asse. Tenta di percepire ogni minima differenza, ogni labile variazione sul tema. E alla fine, stordito, scopre un’immagine che non è più quella che aveva lasciato, ma che è stata in grado di creare un altro tempo, immobile eppure sempre in-divenire.

Con spettri che bucano l’occhio, Weerasethakul continua a filmare le rovine del mondo. Tra tracce, residui e solchi di un’umanità perduta, scopre che ogni vita, ogni percorso, è già stata e sarà di nuovo fantasma. Il cinema, casa privilegiata degli spiriti, ripercorre sentieri già tracciati, vite già vissute e vite da vivere, come quelle di Ecstasy Garden, l’opera che il regista non riuscì a realizzare. Mekong Hotel si (de)struttura fin dall’inizio come un film che vive in assenza di un altro, succhiandogli carne e sangue, proprio come fosse un Pob. E se lo spettro principale è quello di un film mai fatto, bisognerà allora tornare necessariamente a lui per innescare una rinascita. Lo scopo, fondamentale, è quello di salvarci della paura più grande dei fantasmi che noi siamo, quella dell’oblio.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 23/02/2015

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