Mare chiuso

Il cuore rallenta la testa cammina

in quel pozzo di piscio e cemento

a quel campo strappato dal vento

a forza di essere vento…

Fabrizio De Andrè, Khorakhanè

“Il Capitano non è affidabile, il GPS non è affidabile. Provi perché non hai altra scelta”. Una frase indicativa, che da sola s’innalza a emblema non unicamente di un lavoro, ma di una carriera, o quantomeno ciò che fin qui una carriera può rappresentare. Mare chiuso è l’ultima fatica di Andrea Segre – lavoro firmato in collaborazione con Stefano Liberti – e quindi anche ultima fermata del nostro viaggio alla scoperta del regista veneto. Un viaggio – quello che abbiamo compiuto – nel vero senso della parola, che ci ha condotto a esplorare in maniera approfondita ciò che il regista a fin qui saputo offrire alla causa, e – speriamo – ha portato i suoi lavori oltre la cortina di diffidenza troppo spessa che sempre avvolge il cinema documentario. Senza pretese che scavallino i nostri orizzonti, il desiderio primo che ci ha mosso verso questa retrospettiva era quello di dar voce e parole ad un artigiano del documentario che ha dimostrato fin qui di saper portare avanti egregiamente la sua bottega.

“Il Capitano non è affidabile, il GPS non è affidabile. Provi perché non hai altra scelta” dicevamo. Emblematica, per quale motivo? È la voce di un migrante e potrebbe essere la voce di tutti. È un grido disperato e una richiesta di aiuto, è la testimonianza che l’aridità umana può ancora esser vinta a colpi di speranza e di solidarietà, di perseveranza e coraggio. Mare chiuso è l’ennesimo racconto di migranti, è ancora un viaggio verso l’Italia compiuto spalla a spalla da chi lo racconta e chi ha tutte le intenzioni di ascoltarlo; tanti i volti che si lasciano segnare dalla commozione di una testimonianza, dal ricordo di un’esperienza atroce, vissuta al fianco di una donna incinta o di un bambino assetato. Mare chiuso è una denuncia bruciante di uno dei punti più bassi che la nostra democrazia ha toccato: gli accordi per il controllo dei flussi migratori stipulati tra Roma e Tripoli, sancito sempre da ciò che non più di una settimana fa abbiamo definito “il più viscido dei baciamani”.

C’è una storia forte e coinvolgente quindi, ci sono racconti che sgomitano nella nostra mente per ricordarci che le negazioni, le brutalità di cui si parla avvengono a poche migliaia di chilometri dalle nostre case; ma laddove la storia finisce, inizia il modo di raccontarla, ed è lì che Andrea Segre stupisce ancora, o forse semplicemente stupisce ancor di più. Abbiamo raccontato la sua maturazione fin qui come la presa di coscienza di un’indole da antropologo, che il regista ha assecondato sempre più affilando i suoi lavori, la cui lama sempre più riusciva ad affondare nelle radici del paese raccontato, lasciandone la superficie per addentrarsi in strati più profondi. Ecco quindi che i bozzetti dei personaggi raccontati si son fatti macchiette (non in un’accezione negativa della definizione), lasciando il posto a persone, prima di divenire emblemi di una società infetta, terrorizzata dalla diversità, fondamentalmente razzista. C’è altro però in quest’ultimo documentario, qualcosa che lo rende – almeno fino a questo punto della carriera di Segre – un lavoro definitivo, completo. Questo altro può esser ricercato nell’inserimento di materiali d’archivio che ritraggono l’allora Ministro dell’Interno Maroni, pronunciare parole che puzzano d’ignoranza, Berlusconi e Gheddafi impegnati nel sottolineare quanto i loro accordi siano fedeli ai principi di tutela dei diritti dell’uomo, immagine che riuscirebbe forse a strapparci un sorriso, se solo non avessimo assistito fino a quel momento ciò che si cela dietro il nostro riso amaro. Si può senza dubbio aggiungere, quindi, che la regia a quattro mani aiuta Segre a sviluppare il suo stile uscendo mirabilmente da dei binari che fin qui, si erano comunque dimostrati in grado di portare a destinazione senza ostacoli.

Ma allargando lo sguardo, allontanandoci dal dipinto intero della sua filmografia, afferriamo la questione. Un mosaico articolato prende forma: Come un uomo sulla terra, Ka Drita?,, tutti tasselli che sanno ammaliare se presi singolarmente, ma in grado di rapire letteralmente se posti l’uno al fianco dell’altro, completandosi, mostrandosi nella loro completezza documentaria. Incorniciati tra i canali fittizi e le poche parole di una magnifica finzioni: incorniciati entro Io sono Li.

Autore: Marco Giacinti
Pubblicato il 23/08/2014

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