Marathon - Enigma a Manhattan

Marathon – Enigma a Manhattan di Amir Naderi, datato 2002, fu il primo film del regista iraniano ad arrivare nelle nostre sale. Capitolo conclusivo di un’ideale trilogia newyorkese che comprende anche Manhattan by Numbers e A, B, C…Manhattan, è un’altra opera simile a un poema libero, parto dell’immaginazione di un autore che ha saputo appropriarsi di una variante impazzita e molto personale di cinema realista. Smosso, specie nella porzione americana della sua carriera, dalla volontà di mettere in crisi i canoni della realtà per incidere in essa e giungere a soluzioni non così scontate. Rispetto agli esordi iraniani, l’arrivo negli States di Naderi coincide dopotutto con un uso meno convenzionale e grezzo del mezzo cinema per approdare a forzature di gran lunga più iper-realiste, nel senso di un reale che venga letteralmente sventrato e manipolato, superato nel nome di un’inadeguatezza non più tollerabile, di un’ingenuità neorealista da bypassare pressoché definitivamente perché non più adatta a esprimere l’interiorità dell’autore. O meglio, ciò che gli USA hanno fatto del suo interiore, disfacendosi di ciò che vi era prima e inserendovi qualcosa di diverso, qualcosa d’altro. Tutto ciò va nella direzione di un disvelamento più palese del mezzo cinema nei suoi film, delle soluzione ardite di montaggio, degli artifici della grammatica cinematografica. Ecco il motivo per cui Naderi è una sorta di poeta: perché si serve, nell’assemblare le immagini, di salti, ellissi, metonimie, metafore e sottolineature espressive, in altre parole di un vero e proprio campionario di figure retoriche.

Era il 1986 quando Naderi si trasferiva negli Usa. Una vera e propria palingenesi per il suo cinema, che risorge senza più essere minimamente intaccato dal passato che s’era lasciato alle spalle. Il suo cinema, però, ora come allora continua ad affrontare di petto certi limiti, a non adagiarsi mai, a essere animato da uno spirito guerriero che ruggisce anche lontano dalla propria patria. La formalità cui Naderi sopraggiunge andando via dall’Iran non si traduce dunque quasi mai in formalismo, segue piuttosto un percorso coerente e ispirato di ricerca e innovazione. Marathon, uno dei suoi film più emblematici e paradigmatici di quanto detto finora, lo ribadisce. Non sarà girato in mezzo alle tempeste di sabbia di Acqua, vento, sabbia, ma si rinchiude dentro altre prigioni per costringere il proprio estro a creare a partire da altre difficoltà e contingenze sfavorevoli (il cinema di Naderi, stringi stringi, non si è mai esentato dall’accettare delle sfide anche proibitive ribaltandole a proprio favore, usandole come micce infiammanti e motori scatenanti). Un vagone della metropolitana, un’impresa da portare a termine a tutti i costi: 78 cruciverba in 24 ore, il record da battere per la protagonista interpretata da Sara Paul. Un’ossessione che lacera e divora, consumata in condizioni di stasi come in ambienti più cinetici, proiettata sulle forme oblunghe di una città, New York, che dell’essere labirinto e reticolato ha fatto uno dei suoi tratti di massima riconoscibilità. Naderi si conferma dunque un sopraffino sguardo urbano, oltre che un elegantissimo fotografo, interessandosi al potere straniante e claustrofobico dell’immagine riprodotta in serie, senza per questo doversi automaticamente legare a riflessioni sul pop: in Marathon abbiamo squarci di ferraglia e grattacieli ma soprattutto carte, carte e ancora carte, che affollano le immagini parallelamente alle teste degli spettatori e della protagonista e si trasformano ben presto in incubo verticale, sprofondato in una vertigine che osserva a strapiombo la base oscura e lontana di un pozzo e da essa si lascia strangolare.

La ripetitività della visione diventa in Marathon un congegno stranissimo, privata quasi completamente di dialoghi, costretta a lavorare sugli archetipi ridotti all’osso della scrittura cinematografica: le immagini e i suoni interagiscono in un vortice che il montaggio spinge alle soglie dell’espressionismo, anche se è il digitale scelto dal regista ad appiattire la tridimensionalità cupa delle immagini e a non saper donare ad esse la giusta, doverosa stratificazione che gli sarebbe dovuta. Il film però funziona non poco nel suo crescendo come si diceva verticale, decisamente contrapposto al flusso piano e orizzontale di Vegas: Based on a True Story, altro grande film americano di Naderi ma successivo ed esterno a questo trittico sulla Grande Mela. Se Vegas obbedirà quasi a un vuoto pneumatico e a un voto di castità più contemplativo, questo film a confronto pare un Pi greco – Il teorema del delirio in un contesto pubblico di mezzi di trasporto e spazi bianchi da riempire, dove l’intervallo dei neri rappresenta l’ostruzione di una mente che va a sbattere contro le pareti di un corridoio opprimente. Metafora di una nazione e di un mondo che ha ancora bisogno di definizioni (anche se è conscio che la vita sia molto più grande), tanto da cercarle in modo compulsivo, da tentare di ricreare l’ambiente propizio affinché esse possano essere più agevolmente trovate e incasellate. Il mondo sospeso e tutto interiore della protagonista e il suo presumibile impazzimento sono tallonati da un uso magistrale del sonoro che non trova mai respiro, a dispetto della neve finale e delle aperture simboliche un po’ didascaliche che Naderi a un certo punto sembra voler veicolare (in un’America appena colpita al cuore dall’ 11/09, tra l’altro). Mentre Manhattan by Numbers s’attaccava alle statue, alle piazze, ai numeri sui tabelloni e al Toro di Wall Street di Arturo Di Modica scrutato e sondato nell’asfissia di molteplici inquadrature, come a cercare le risposte a un quesito fin dal principio mal posto, Marathon è un tour de force che sfugge alle definizioni mettendo in scena per 75’ la frenesia e il collasso post-metropolitano. Di un mondo industriale, va da sé, definitivamente in disarmo.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 10/02/2015

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