Manglehorn

Un film debole diventa l'occasione per riflettere sullo stato del cinema statunitense. E sulla morte degli autori.

Un anno dopo Joe David Gordon Green torna alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare Manglehorn, interpretato da Al Pacino e Holly Hunter. Due attori che sono il motore e la ragion d’essere di tutto un film che il regista utilizza quasi come un canovaccio per poter lavorare con due simili fuoriclasse. Si fatica non poco a trovare un altro senso a un’operazione come Manglehorn, che racconta per un’ora e mezza la vita solitaria di Angelo, fabbro di una piccola cittadina statunitense, dei suoi rimpianti per un amore perduto, della compagnia della sua gatta Fannie e dell’incontro con una donna che potrebbe rappresentare l’occasione per liberarsi dei fantasmi del passato. L’esilità del film è evidente già solo dalla sinossi, un racconto pacato e semplice, schematico, pieno di luoghi comuni e di ovvietà di scrittura solo in parte riscattate dalla performance di Al Pacino. Forse l’unico momento in cui Manglehorn riesce ad accendersi è il frammento narrativo dedicato alla cena tra Hunter e Pacino, vero e proprio scontro tra talenti, dove Gordon Green ha l’intelligenza di mettersi da parte e di assecondare la performance dei due attori. Piccola scintilla di cinema, in un film altrimenti monotono e senile (l’omaggio finale ad Antonioni è qualcosa di deprimente) che ci spinge però verso considerazioni più generali. Continua a lasciare perplessi la carriera di David Gordon Green, un cineasta che, come altri registi della sua generazione, continua a lavorare fuori e dentro l’industria realizzando film interessanti, lavori su commissione, fiaschi e fallimenti, tutti frullati insieme in un calderone indistinguibile. Un cinema che ci sembra battezzato dal modello forte di Steven Soderbergh, ormai diventato un importante riferimento per il modo rapsodico con il quale realizza lavori di ogni tipo, spesso diversissimi tra loro e che rischia di segnare (o di aver già segnato) la morte del concetto di autore per come la abbiamo intesa dagli anni Sessanta a oggi. Perché davanti a Manglehorn di David Gordon Green è davvero difficile non chiedersi qualcosa sullo stato di salute del cinema statunitense contemporaneo: non ci sembra fuori luogo la domanda, dato che Gordon Green ha costruito tutto il suo film attorno alla figura iconica di Al Pacino, che della grande stagione di rinnovamento del cinema americano degli anni Settanta fu uno dei protagonisti. E’ possibile che la voglia di sperimentare, di inventare un nuovo cinema o di reinventare criticamente quello del passato, caratteristiche di tante visioni autoriali di quarant’anni fa siano arrivate, nel 2014, a produrre un film leggero, consolatorio e soporifero come Manglehorn? Lanciamo un’ipotesi: sono forse i nostri criteri ad essere invecchiati, le griglie interpretative con le quali abbiamo amato tanto cinema del passato a non bastare più per parlare di una nuova generazione di cineasti senza forma, senza collocazione, privi di una romantica esigenza di comunicazione e in balia della curiosità e dei desideri del momento o delle richieste del mercato. Una generazione senza autorialità. Liberi e incostanti. L’inarrivabile Soderbergh insegna. David Gordon Green aveva venticinque anni quando esordì con il notevole George Washington e realizza Manglehorn a trentanove anni, un’assurdità se ci si pensa (l’età di Coppola quando realizzava Apocalipse Now…). Non possiamo amare un regista simile, possiamo al più rimanere affascinati dalla sua incostanza e aspettarlo al prossimo progetto che, ci scommettiamo, arriverà presto e sarà lontanissimmo da Manglehorn. Ma, rispetto agli anni Settanta, è la macchina cinema a essere diversa, le modalità realizzative e distributive ad essere irreversibilmente modificate. Dobbiamo capire e interpretare questo cambiamento. Il regista come santino da adorare e coltivare è un qualcosa di museale ormai. Sono rimasti solo i film. E Manglehorn è soltanto un piccolo prescindibile film che si farà ricordare esclusivamente per le divertire interpretazione di Al Pacino e Holly Hunter. In ogni caso, un po’ poco. A prescindere dal percorso registico di David Gordon Green.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 30/08/2014

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