Mad Detective

Decimo film scritto e diretto da Johnnie To e Wai Ka-fai, Mad Detective è stato presentato nel 2007 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ottenendo numerosi consensi di critica e di pubblico. A metà tra il genere poliziesco e il thriller psicologico, l’opera è incentrata sulle capacità psichiche e interpersonali del suo protagonista, l’ispettore Chan Kwai Bun, un caso patologico affetto da una schizofrenia che, attraverso alterazioni empatiche e cognitive, gli permette da lato di identificarsi con i serial killer e dall’altro di vedere il vero Io dei soggetti che gli si pongono dinnanzi.

La storia è sofisticata, scissa in due grandi blocchi narrativi e temporali: una prima parte è incentrata sulla descrizione spericolata delle modalità investigative di Bun, che entra in contatto con la mente degli assassini e delle vittime simulandone i gesti e assumendo il loro punto di vista. Nelle prime immagini Bun accoltella il cadavere di un maiale, si infila dentro una valigia facendosi scaraventare dalle scale, il tutto grazie alla complicità dei suoi colleghi e i suoi superiori che riconoscono la genialità folle dell’agente. Tuttavia la popolarità di Bun è messa in crisi nel momento in cui le sue capacità oltrepassano quella linea di confine che lo rende definitivamente un “mad”: durante il saluto ad un superiore che ha raggiunto l’anzianità, l’ispettore Chan mutila il suo corpo tagliandosi l’orecchio in segno di riconoscenza. Espulso dalla polizia, ritroviamo Bun cinque anni dopo, in compagnia dei suoi fantasmi e delle sue allucinazioni, quando un giovane collega cerca di rimettersi in contatto con lui per risolvere un caso che vede coinvolti due agenti della polizia e un indiano: una pistola è al centro dell’intrigo, appartenuta al poliziotto scomparso, protagonista di una serie di delitti che stanno pian piano allarmando la città. Il giovane investigatore, che agli occhi di Bun appare un ragazzino spaventato, dovrà fare i conti con una realtà disgiunta, in cui i riflessi del reale rimandano a verità multiple, governate da Io irriconoscibili, mascherati da identità contrapposte. Bun sembra l’unico in grado di vedere cosa c’è al di là dello specchio, ne intravede luci e ombre, ma la sua credibilità agli occhi del collega è negata per via della sua personalità bizzarra e stravagante.

Tra citazioni e colpi di scena il film si conclude in modo sorprendente fondendo in una sola sequenza Orson Welles, Luigi Pirandello e Quentin Tarantino: un gioco di specchi che rimanda abilmente a La signora di Shangai e frammenta il campo visivo, raddoppiando all’infinito una realtà già complessa e scissa. “Uno, nessuno e centomila” ma il tutto sembra ricondurre formalmente all’unità: in cerchio, come ne Le iene, i protagonisti di questa storia duellano puntandosi una pistola contro. La morte, sembra dire il film, ricongiunge definitivamente le parti scomposte dell’Io, ciò che rimane è solo un corpo trivellato dai colpi di una rivoltella. Ci penserà il giovane detective a ricomporre il puzzle, pur tuttavia disponendo i pezzi a suo piacimento poiché la realtà è caso e caos e neppure la morte può donare un briciolo di verità e di speranza.

Alla complessità narrativa e strutturale di Mad Detective si aggiunge poi la modalità di attivazione del processo empatico attraverso il quale il detective Bun non solo cerca di indossare il punto di vista incarnato dell’assassino, ma induce quest’ultimo a prendere vita nella propria dimensione psichica e soggettiva. Bun, dunque, sembra comunicare con il fantasma dell’altro, condividendo con esso le posture dell’atto omicida e gli stati affettivi ad essi legati. Se l’empatia permette di comprendere lo stato emotivo e le necessità altrui, allora con molta probabilità siamo in grado di scorgere nell’altro anche i desideri più reconditi. Secondo la logica dello stadio dello specchio espressa da Lacan il nostro Io si costruisce solo in presenza dell’altro, dunque desiderando i suoi desideri. Non è un caso che alla base dell’empatia ci siano proprio i neuroni specchio, chiamati così poiché attivati dall’individuo nel momento in cui osserva un altro soggetto, simulando i gesti e le azioni motorie da questi compiuti sotto forma di impulsi e scariche nervose. In altre parole ogni individuo percepisce e comprende le azioni degli altri agendo e reagendo in modo simile ed empatico. Sotto questa prospettiva l’ispettore Bun amplifica la sua empatia per la vittima e il carnefice sperimentando i loro vissuti, incorporando il loro punto di vista per poter ottenere informazioni sui loro desideri, in modo da poterli sperimentare sulla propria pelle.

Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, il discorso sull’identificazione e l’empatia non può che intrecciarsi con il concetto di identità e di maschera. Il vero potere cognitivo e intellettuale di Bun sta infatti nella capacità di vedere i diversi Io dell’altro. Dietro la facciata di ogni individuo si nascondono personalità e sessualità multiple, come il colpevole degli omicidi che ha ben sette personalità diverse, la cui mente è una donna che cerca di tenere a bada gli Io violenti e pulsionali. Bun, dunque, oltre che identificarsi con l’assassino deve necessariamente empatizzare con le sue identità multiple, indossando ben sette punti di vista, sette forme specifiche di desiderio che in ultima analisi sono i sette vizi capitali. Ciò che viene fuori dal film di Johnny To e Wai Ka-fai è un universo di maschere e identità multiple e ingannevoli che cercano di propagarsi nell’infinità dello spazio attraverso i riflessi di uno specchio fisico e neurale.

Autore: Roberto Mazzarelli
Pubblicato il 10/02/2015

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