MacHeads

File notturne in attesa dell’inizio della vendita dell’oggetto tanto bramato. Evangelisti del “verbo”. Confessioni private. “Non sono mai andata a letto con un utente Windows. Almeno non consapevolmente“. Questa è la Mac-mania, e loro sono i Mac-Heads, ovvero i fanatici dei prodotti Apple, primi felici acquirenti dell’azienda negli anni Ottanta divenuti col tempo veri e propri adepti del marchio anche nei periodi di crisi. MacHeads è anche il titolo di un documentario uscito nel 2008 e diretto da Kobi Shely: basato su una serie di interviste ad utenti comuni assieme a nomi celebri all’interno della community – come Guy Kawasaki, il primo evangelista Apple, al pari dei vari Santi Giovanni, Matteo, Luca e Marco – il film tenta di spiegare un fenomeno che nato in sordina trent’anni fa, col ritorno di Steve Jobs nell’azienda nel 1996 e l’inizio della sua seconda irresistibile scalata economica in quindici anni ha contagiato una nuova generazione di appassionati.

Chiave del successo dell’Apple è l’aver adempiuto alla regola fondamentale del marketing pubblicitario: riuscire ad associare al marchio uno specifico sentimento. Negli anni Ottanta si trattò di vendere l’idea di libertà che il normale personal computer, poco pratico, freddo, destinato agli uffici, non concedeva. I primi fan Apple furono i creativi – designer, disegnatori, musicisti, grafici – che trovarono nel Macintosh uno strumento sensibile alle loro esigenze professionali, dando vita alla dicotomia Apple/Windows, Sognatori/Razionali oggi ben più sfumata, ma allora ancora prepotentemente motivata. Più in generale, il concetto di libertà espresso dal marchio parlava anche agli utenti poco pratici fino ad allora tenuti lontani dal mondo del computer a causa delle difficoltà intrinseche di utilizzo, con una conseguente breccia nell’elite informatica ben rappresentata dallo spot di Ridley per il lancio del Macintosh, simboleggiato dal lancio di un martello contro lo schermo di un dittatoriale Grande Fratello nell’atto di controllare le masse inermi. In quegli anni è la diversità nonché la solitudine a tener uniti i pochi utenti Apple, che privi di Internet, fondano in parecchie università americane i MUG, Macintosh User Group, per scambiarsi informazioni e mantenersi aggiornati. MacHeads rileva anzi il valore fondamentale di queste varie comunità, che incoraggiando il dialogo, e favorendo il senso di appartenenza, produssero un ulteriore concetto fondamentale per il successo di un prodotto, ovvero l’idea di fedeltà anche nei periodi di crisi. È allora che nascono i presupposti per il passaggio dall’interesse pratico – compro “X” perché mi serve – al legame quasi religioso – compro “X” perché lo amo – che permise all’Apple di procrastinare il fallimento anche negli anni bui del dopo Steve Jobs fino al ritorno salvifico del profeta. Nel film Jobs incarna l’ultimo tassello necessario per fare di un’azienda un fenomeno culturale prima che economico. È il Messia, l’uomo che va ascoltato, citato nelle parole degli intervistati come “colui che non sbaglia mai”. Il prodotto diviene feticcio, metafora di un’ideale: le persone non comprano computer, ma libertà, bellezza, futuro. Un concetto tanto affascinante quanto inquietante.

MacHeads è però anche il racconto di uno scontro generazionale, tra i primi audaci adepti e le ultime generazioni, che hanno scardinato il vecchio concetto di comunità passando dal confronto reale a quello virtuale. È l’inevitabile conflitto che si instaura con la stessa Apple, che oggi sulla cresta dell’onda, non può che distaccarsi dalle originarie aspettative dei suoi primi fan. Non ci sono più solo computer oramai: molti dei giovani interpellati nel documentario possiedono soprattutto un Ipod – il film finisce con il lancio dell’Iphone – hanno esigenze diverse, possono anche permettersi di essere poco interessati al mondo informatico senza che i prodotti laterali della Mela non suscitino loro comunque interesse. Cosa più importante, è il cambio di prospettiva dell’ideale; non più ribellione, ma coolness, comprare perché è bello, è figo. Impossibile allora non avvertire in questi nostalgici pionieri i veri protagonisti del film per una sorta di distanza dal marchio contemporaneo. Benché sia opinabile, per quanto potente, il concetto stesso che li fece innamorare trent’anni fa (era vera libertà quella che vendeva la Apple? Si può vendere la libertà?) e anche se il film, nel suo racconto sopra le righe privo di giudizi può essere considerato un involontario ma prezioso antidoto contro ogni feticismo culturale, non si può rimanere indifferenti ad una passione del genere, per quanto fanatica. È il messaggio finale e inconfessato di MacHeads: in fondo, nella sua ingenuità, esagerazione, fallibilità, qui si parla sempre di Amore.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 01/03/2015

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